Il Corriere della Sera 06-09-2001
DAL NOSTRO INVIATO
UDINE - Una mattina di sedici anni fa, Dino Omenetto, agricoltore, rinunciò a irrigare il suo mais perché si accorse che l’acqua del pozzo artesiano che utilizzava da anni era diventata gialla. Qualche tempo dopo, anche le mogli di Giovanni Cicutto e Giovanni Stocco, operai della Cromofriuli spa, di Pavia di Udine (una delle più grosse aziende di cromatura in Europa), cominciarono a preoccuparsi. Ogni mattina, trovavano le lenzuola in cui avevano dormito i mariti completamente gialle. «Solo più tardi - dicono - avremmo capito che quel giallo era cromo, espulso dai pori per la sudorazione».
Partono le segnalazioni e poi le denunce. All’azienda sanitaria, ai Nas dei carabinieri, alla magistratura. E comincia una storia che sembra un film, anzi è proprio quella raccontata nel film «Erin Brockovich», ambientato in California e premiato con l’Oscar. Tanto che il comitato di cittadini nato per difendersi dal terribile cromo esavalente, il potente cancerogeno che ammorba le falde d’acqua, anche quella potabile, del sottosuolo udinese, si chiama Erin Brockovich, come l’eroina del film impersonata da Julia Roberts. Sedici anni dopo quel primo allarme, le analisi delle acque di falda, anche di quelle a cui attinge l’Acquedotto Friuli Centrale, dicono che il pericolo non è cessato.
Al contrario. Un monitoraggio appena più continuo e particolareggiato eseguito dall’Agenzia regionale di protezione ambientale dimostra che negli ultimi tre anni il cromo ha percorso, contaminandolo, dieci chilometri del sottosuolo. Da nord a sud. Da Pavia di Udine fino a Bicinicco e a Santa Maria La Longa. Passando per Lauzacco, Tissano, Santo Stefano Udinese, per «puntare» verso Palmanova e chissà dove ancora: dipende dalle piogge, dai movimenti della falda, dalla natura del terreno. Sedici anni fa, c’erano «soltanto» operai sfigurati dal cromo - Stocco, Cicutto e altri dieci -, che nell’87, con il setto nasale perforato, i timpani danneggiati, le mani piagate, una concentrazione di cromo nelle urine anche tredici volte superiore ai limiti ammessi, ottennero dal pretore del lavoro la condanna della Cromofriuli per lesioni colpose.
Un risarcimento tra 500 mila lire e un milione a testa, quasi un’elemosina. E senza che l’Ente nazionale prevenzione infortuni o l’Inail riconoscessero quei guai come la conseguenza di malattie professionali. La storia sarebbe finita lì, se il pretore di Udine, Giorgio Cabrini, non avesse disposto una perizia per capire se oltre agli uomini che ci lavoravano, il cromo esavalente non avesse compromesso anche il suolo, il sottosuolo e le acque di falda. La temuta sorpresa arrivò nell’89. I 50 microgrammi di cromo per litro (1 microgrammo è un milionesimo di grammo), che è la concentrazione massima ammissibile affinché l’acqua sia considerata potabile, risultavano abbondantemente superati. In diversi casi, quasi di cento volte.
Questo tuttavia è il valore per la potabilità dell’acqua. Ma perché un sito sia considerato inquinato, dice la legge, e quindi da bonificare, occorre molto meno: 5 microgrammi per litro. Sono cifre da disastro, eppure, una volta accertata la contaminazione, non succede più nulla. Per otto anni, dall’89 al ’97, sembra quasi che la paura di scoprire l’irreparabile paralizzi tutti. Magistrati, sindaci, enti preposti ai controlli. Ma il serpentone di cromo avanza e lascia il segno. Nel ’97, i sindaci dei Comuni dell’area inquinata non indugiano oltre ed emanano ordinanze di chiusura di pozzi, mentre il presidente dell’Acquedotto friulano, Giovanni Petris, denuncia alla Procura della Repubblica «la forte preoccupazione per la dinamica della diffusione dell’inquinante cromo, la cui concentrazione nel nostro pozzo per il rifornimento di acqua potabile ha raggiunto i 300 microgrammi per litro, mentre in un altro pozzo a circa 200 metri di distanza si è riscontrato un valore di 3.600 microgrammi/litro». Nuova inchiesta, del pm Giuseppe Lombardi, e nuove analisi.
Ma più pozzi si controllano, più allarmanti risultano i valori di cromo. Il pm però chiede l ’archiviazione del caso, scontrandosi con il gip, Paola Roja, che, dicono ambientalisti e comitato, «ha riacciuffato per i capelli un caso che sembrava destinato alla sepoltura». Il prossimo 21 settembre, infatti, grazie alla nuova perizia disposta dal gip (in cui si definisce «inequivocabile» l’inquinamento da cromo), la vicenda verrà discussa in aula, dove compariranno i legali rappresentanti della Cromofriuli (l’accusa è di avvelenamento di acque) e le parti civili, tra le quali il comitato Erin Brockovich.
«La falda però ce la siamo giocata - dice con amarezza Marta Plazzotta, chimico dell’Arpa -. Le quantità di cromo esavalente sono massicce. Senza contare il cromo che si annida nei 60 metri di terra che separano il piano campagna dalla falda». Già così la situazione è grave e preoccupante, «perché non sappiamo ancora bene - dice Marino Visintini di Legambiente - quanto cromo abbiamo assorbito attraverso il ciclo alimentare e tra quanto tempo ne pagheremo le conseguenze».
Intanto, quasi più nessuno beve acqua del rubinetto e la vendita di acqua minerale va a gonfie vele. Ma il quadro complessivo potrebbe risultare ancora più fosco se si facessero indagini più accurate e, finora, richieste invano: per esempio, carotaggi in aree molto sospette e prelievi da tutti i pozzi «toccati» dal serpentone di cromo. «Le vasche della cromatura - ha raccontato Giovanni Cicutto alla Guardia di Finanza - erano tutte interrate e non ispezionabili, a differenza di quelle dell’azienda in cui avevo lavorato prima, in Svizzera. Il cromo fuoriusciva dalla vasche e si disperdeva nel terreno. L’impianto di recupero era perennemente rotto. L’ho detto ai dirigenti, e gliel’ho anche scritto, che non volevo finire in galera per loro.
Ma non è stato fatto nulla». Quattro delle sette vasche della Cromofriuli, secondo l’ultimo verbale dell’Arpa, sono ancora interrate e quindi non ispezionabili. Compresa la più grande, 8 metri di profondità e 3 di diametro, che è quella da cui Giovanni Scotto ricorda di aver visto fuoriuscire cromo ad altissima concentrazione, 180-200 grammi per litro. «Era condensa di cromo, potevi raccoglierla con un cucchiaio - dice Scotto -. Sa cosa vuol dire? Che lì troveranno cromo ancora per decenni».
Si doveva controllare meglio e prima, è quel che adesso dicono un po’ tutti. «Anche la stessa Arpa poteva e doveva fare di più - sostiene Elio Di Giusto, sindaco di Bicinicco -. Non è possibile che mi informino dell’andamento dell ’inquinamento solo da gennaio di quest’anno. Per giunta, dopo che il caso era stato denunciato in una conferenza stampa da Legambiente. E prima? E perché sui 50 pozzi che abbiamo qui, di cui 20 d’acqua potabile, ne sono stati monitorati soltanto 7, senza specificare di quale natura?». Di Giusto è arrabbiato anche perché, dice, «è la seconda volta che Bicinicco finisce sui giornali per una vicenda grave e allarmante senza alcuna colpa da parte nostra». La prima è stata per la vicenda della «mucca pazza». Per carità, non c’è alcun nesso di causa-effetto tra le due cose.
Ma provate a pensarle insieme, sotto casa vostra. O a immaginare l’ansia di una nota azienda vinicola della zona, che rifornisce una nota compagnia aerea straniera. Oppure la rabbia di chi lì alleva polli e per continuare a farlo deve sborsare venti milioni in più del previsto per garantirsi acqua «sicura». Ecco allora che anche il sindaco di Pavia di Udine, Silvano Moschione, corre ai ripari. Il 24 agosto scorso ha firmato una nuova ordinanza, per chiudere un altro pozzo. Proprio quello in cui Dino Omenetto trovò l’acqua gialla. Il pozzo all’origine della battaglia legale e civile con il volto di Erin Brockovich.
cvulpio@corriere.it Carlo Vulpio