Il Movimento
Dossier n. 1


"Quelle Fiamme ..."

I principali casi di corruzione tra gli appartenenti
alla Guardia di Finanza nel Dopoguerra


di Vincenzo Cerceo

"Contentatevi delle vostre paghe"
Vangelo di Luca, 3 ­ 12, 14



Premessa

Quasi una biografia per una "Fiamma Gialla"
che non si è arresa al malcostume

Voglio dedicare il presente breve lavoro alle migliaia e migliaia di finanzieri, di ogni grado, onesti (alcuni ne ho conosciuti personalmente) che, in questo dopoguerra, hanno appreso e vissuto con sgomento gli eventi ricordati in questo opuscolo, e sono rimasti onesti nonostante tutto. Oltre a ciò, lo scopo della riproposizione di cose già note è duplice: in primo luogo, è bene non dimenticare fatti di assoluta gravità, che, forse, col passare degli anni rischiano di finire nel dimenticatoio; non lo ritengo giusto ed onesto verso i cittadini, verso le "Fiamme Gialle" corrette, insomma verso il Paese.

In secondo luogo, questi eventi, così gravi, non hanno mai avuto, fin qui, una trattazione sistematica e completa. Tutto ciò che è stato scritto, in questo dopoguerra, (ed è stato scritto molto!) sulla corruzione all'interno della Guardia di Finanza, è rimasto confinato nell'ambito della cronaca dei quotidiani e dei settimanali, quasi vi fosse una remora a ritornare su quegli argomenti, a sistematizzare quella messe di dati. Forse per non dispiacere ad uno dei "poteri forti" quale è sicuramente il Comando Generale della Guardia di Finanza?

Chi scrive ha lavorato, ho la pretesa di dire con dedizione e coscienza, tra le Fiamme Gialle per oltre ventotto anni,  ricoprendo anche incarichi importanti e sempre faticosi, e raggiungendo un grado di ufficiale superiore abbastanza elevato. E' stata una professione assunta anche come scelta di vita. Per questo molte volte, leggendo le cronache, mi sono sentito tradito da alcuni superiori e da alcune gerarchie. Da quelli condannati con sentenze passate in giudicato, per la precisione. Dopo il congedo, alcuni ufficiali del Corpo, hanno tentato inutilmente di infangare il mio nome con l'infamante accusa di truffa ai danni dello Stato, di quello Stato che (chi mi accusava lo sapeva bene!) avevo sempre servito in maniera assolutamente disinteressata.

Quel tentativo fallì miseramente: la Magistratura Militare, una prima volta, nella sua funzione inquirente, accertò la mia innocenza, e, per quegli stessi identici fatti, un giudice della Magistratura Ordinaria sentenziò una seconda assoluzione, nel fatto e nel diritto, perché "il fatto non sussiste", ma (aggiunse il Magistrato, "ad abundantiam") anche qualora il fatto fosse stato reale, era evidente da parte mia la totale mancanza di dolo. Quegli ufficiali, forse, semplicemente, avevano sperato, "semplicemente", ripeto, con l'occasione, che la funzione di polizia giudiziaria che attivavano permettesse di raggiungere anche, come effetto secondario, un altro obiettivo, e, cioè, colpire ed impedire la mia attività sindacale a favore della riforma democratica del Corpo della Guardia di Finanza.

Non è così? Può darsi, non lo escludo, ma molti sono stati in quella circostanza gli elementi di difficile spiegazione, che anche l'indagine giudiziaria ha evidenziato. Altre volte, e normalmente, il Corpo ha avuto la consuetudine di svolgere indagini in maniera più precisa prima di portare un cittadino incensurato davanti ai magistrati con un'accusa estremamente grave ed infamante. Voglio tuttavia non escludere la buona fede. Una controdenunzia mia fu archiviata in fase istruttoria, né è mia intenzione risollevare qui più di tanto quella fastidiosa vicenda, ma, in ogni caso, dagli atti processuali emerge chiaro un particolare: alcune carte, che avrebbero potuto giocare fin dal primo momento a mio favore, erano state trattenute da chi mi aveva denunziato e non erano state inviate alla Magistratura che doveva giudicarmi.

Cose passate comunque, almeno per me (dispostissimo ad aprire di nuovo quei discorsi se qualcuno volesse, ma sarebbero loro, e non io, a riaprirli). Tra i corrotti in Fiamme Gialle, comunque, non è stato possibile annoverare il mio nome.

Ciò premesso (e mi scuso con chi legge per questa mia debolezza, di aver personalizzato troppo questa "introduzione" alla successiva trattazione, ma, per quella vicenda, "il modo ancor m'offende", e non sono disposto a dimenticare, pur non riaprendo le faccende, fino alla fine dei miei giorni) una considerazione ho sempre fatto tra me e me, allorché i "mass media" riferivano di casi gravi di corruzione all'interno del Corpo a cui appartengo (nei ruoli della "riserva"): cosa hanno fatto, al Comando Generale, per prevenire tutto questo disdoro? Hanno usato la stessa determinazione e precisione assoluta e preliminare che hanno usato nei miei confronti? Oppure no? E' una domanda per rispondere alla quale bisognerebbe avere a disposizione documentazione non accessibile per legge, e la risposta potrà, forse, essere data dagli storici del futuro; ma ora, intanto, cosa diciamo ai finanzieri onesti?

E' soprattutto per rispondere, ora, a questa domanda (ma la considero una domanda seria e significativa) che ho preso la penna ed ho deciso di scrivere questo opuscolo. Al termine della lettura ognuno potrà trarne le proprie personali conclusioni. Se qualcuno dei politici importanti (perché noi lo invieremo a tutti loro) nel leggerlo (qualcuno di loro spero lo leggerà) si porrà la stessa domanda, avrò ottenuto un vero successo; altrimenti, avrò solo compiuto un ulteriore atto che considero per me doveroso verso quelle Fiamme Gialle che io (ripeto: io sì!) ho servito senza tradire. Una inchiesta parlamentare, infatti, che potrebbe rispondere subito a quei quesiti qui sopra posti, benché più volte chiesta, è stata sempre negata. Io preferirei che fosse aperta, nell'interesse del Corpo, soprattutto, e per rispetto dei finanzieri onesti.


L'opinione pubblica

Una delle caratteristiche dell'azione delle Fiamme Gialle è stata sempre quella della continua presenza nella "società civile". Sono, ogni anno, centinaia di migliaia i cittadini, soprattutto operatori economici, che vengono "contattati" dalle Fiamme Gialle, che ricevono "visite" per controlli fiscali, che debbono dare spiegazioni, tramite loro, al Fisco circa le loro attività, le loro entrate, i loro redditi. E', dunque, sulle tasche degli italiani che i finanzieri operano, con azioni che coinvolgono masse davvero enormi di cittadini. Mai nessun sondaggio statistico, però, è stato compiuto per accertare, con termini matematici aventi validità scientifica, quale sia l'opinione della maggioranza degli italiani circa le Fiamme Gialle e il loro modo di agire. Ciò è un vero peccato, perché sarebbe interessante conoscere, in maniera del tutto generica ed anonima, quale sia la reale opinione del Paese circa il modo di agire, la correttezza, l'onestà degli appartenenti alla Guardia di Finanza! Forse, ne verrebbe fuori (perché dubitarne!) un giudizio altamente positivo, ma, se non si pone mano alla ricerca, mai ciò potrà venire alla luce.

Ci permettiamo di suggerirlo al Comandante Generale del Corpo: il giudizio degli italiani sui Carabinieri, valutato in termini statistici, è risultato positivo. Perché non si pone mano ad analogo sondaggio che abbia per oggetto la "correttezza professionale" delle Fiamme Gialle? Nulla potrebbe essere più idoneo ad esaltare quel prestigio del Corpo che così tanto sta a cuore (e giustamente!) alle gerarchie. Bello sarebbe anche che il Ministro dell'Economia, che ha una lunga esperienza come consulente fiscale, si esprimesse in proposito. Forse qualcosa potrebbero dire anche le associazioni di categoria dei commercianti e degli imprenditori, ma, lo ripeto, sarebbe un'esperienza davvero interessante; uno "spaccato" su un aspetto importante della vita nazionale, dal quale noi augureremmo venisse fuori un bel giudizio su questo Corpo.

Dalla cronaca del passato, sono riuscito a trarre molti spiacevoli eventi negativi accaduti. E' giusto riproporre anche questi, perché la storia va fatta con la realtà, e non sempre la stessa è stata piacevole per le Fiamme Gialle. Vogliamo riproporre tutto questo, come "evento negativo" affinché non accadano più eventi simili nel futuro. A chi avesse da obiettare, diciamo solo di leggere con attenzione il titolo scritto sul frontespizio di questo opuscolo: vuole essere, questa, una (modestissima!) ricerca storico-giornalistica sulla corruzione tra le Fiamme Gialle, e, perciò è di questo e non di altro che di seguito parleremo.

Chi si fa corrompere sporca se stesso e la sua divisa; ma non tutti i finanzieri hanno sporcato le loro Fiamme. Io, ad esempio, non l' ho fatto, né agendo né omettendo. E gli altri? Parlo anche delle omissioni, naturalmente.


Il generale filosofo
 

"Gli agenti di finanza fanno contrabbando.  
                                                         Meglio sarebbe dare la vigilanza a civili armati diretti da un carabiniere"
       Cardinale Mastai Ferretti (Pio IX) 1836

 
 

Tempi difficili e fastidiosi quelli dello stato preunitario, certamente, ma a noi interessano gli ultimi trenta anni della nostra epoca. All'inizio degli anni Settanta, quando assunse il comando della Guardia di Finanza, il generale Raffaele Giudice aveva già superato, con esito positivo, qualche piccola grana amministrativa nell'Esercito dove aveva fatto carriera, ma tutto ciò si seppe a cose fatte, dopo i gravi scandali provocati nel Corpo durante la sua gestione, ed a danno del Corpo. Manifestò subito, tuttavia, un certo "stile di comando" molto significativo. Al Comando Generale, che allora aveva sede in via Sicilia, fece sgombrare alcuni uffici per fare approntare un alloggio al suo aiutante, con grosso fastidio per il servizio svolto da quegli uffici in uno spazio che non era eccessivo; avendo una casa nella sua terra d'origine, Partitico, in Sicilia, fu incaricato quel reparto della vigilanza alla stessa. Lo stesso avvenne con una villetta che Giudice si era fatta costruire nell'isola di Lampedusa, per edificare la quale aveva ottenuto una problematica licenza edilizia. Quale differenza con il generale Borsi di Parma, un autentico nobiluomo, che vietò esplicitamente di mandare pattuglie di finanzieri di vigilanza intorno alla villa della sorella che viveva in Sarzana!

Mobilitava i reparti dove i suoi familiari si recavano perché li agevolassero in ogni richiesta. Insomma: gestiva la sua funzione con larghezza di mezzi per questioni relative al suo personale prestigio oltre che per il servizio esclusivo della cosa pubblica; allora, però, il sentire della società era alquanto diverso. Dicono che anche Napoleone, a suo tempo, tenesse molto al prestigio che si evidenziasse nei comportamenti. Ma torniamo a noi. Quando ispezionava i reparti, era solito comparire in tutt'altro modo: era solito leggere e commentare alcuni brani di Platone, esaltando il senso del dovere, del sacrificio, la "virtù", e così via. Lo faceva così spesso, che la cosa cominciò a destare ironia all'interno del Corpo. Aveva grosse protezioni politiche, come quasi tutti (all'epoca, naturalmente!). Quando fu nominato comandante era ministro delle Finanze Tanassi e Presidente del Consiglio Andreotti. Corse voce che riuscì ad ottenere anche un finanziamento dal FAF (Fondo Assistenza Finanzieri) per un intervento chirurgico a cui dovette sottoporsi; la conferma di questa voce, che ci auguriamo inesatta, potrebbe essere data solo dalla lettura degli atti del Comando Generale, ma è certo che all'interno del Corpo allora qualcuno, scherzando, cambiò la sigla dell'ente sopra citato in FAG (Fondo Assistenza Generali).

Il problema morale però è ben altra cosa. Quando cadde in disgrazia, tolsero il suo ritratto dai corridoi del museo storico del Corpo, con un gesto che mi permetto di definire inopportuno ed inadeguato. Non si può infatti cancellare la storia. Bene avrebbero fatto (ma non lo fecero) ad impedirgli, gli altri generali, di "deviare" quando comandava. Eppure lo avrebbero potuto, quei generali, dato che a tutti i livelli nel Corpo si parlava male di lui. Bastava che avessero avuto un po' più di coraggio, di capacità di dire "no". Ma non fu così. Nonostante tutto, Giudice non vide a suo carico condanne definitive tali da farlo rimuovere dal grado per indegnità. Quando morì, in età molto avanzata, all'ospedale militare di Roma (e noi siamo sinceramente lieti che abbia raggiunto un'età così avanzata nella sua vita terrena), aveva appena ricevuto la visita rispettosa dell'allora comandante generale del Corpo in carica, senza alcun imbarazzo circa l'opportunità della visita stessa, dati i precedenti. A guardare le cose ora, in prospettiva, ci pare che Giudice, nonostante tutto, possa considerarsi un vittorioso, forse un simbolo di un'epoca non buona della nostra storia complessiva. Ma vediamo esattamente cosa accadde di grave, sotto il comando di Giudice, in quel periodo drammatico per le Fiamme Gialle.


Lo scandalo dei petroli
 

La coincidenza tra guardie e ladri è sempre stata una caratteristica, oltre che di alcune commedie satiriche, anche di alcuni governi delle cosiddette "Repubbliche delle banane", dove governi dittatoriali e corrotti consentivano la totale eclissi di un già labile stato di diritto. Tale situazione, però, si è, paradossalmente, realizzata in Italia, paese di alta civiltà giuridica, e di lunga tradizione legale, nella Repubblica nata dal sangue dei caduti della Resistenza al nazi-fascismo, ed oltre trent'anni dopo la proclamazione e l'entrata in vigore della Costituzione Repubblicana, quella attuale, con tutte le garanzie ed i contrappesi dalla stessa previsti. Primo attore di tale specifico totale stravolgimento nella circostanza dello "scandalo dei petroli" è stato, purtroppo, il Corpo della Guardia di Finanza (quello stesso Corpo che, anni dopo, ha tentato di far condannare senza adeguate prove ad una pena infamante un cittadino innocente, lo scrivente, come già detto qui sopra nella introduzione).

La distanza dai fatti (era la fine degli anni Settanta e sono passati ormai più di trent'anni!) può avere offuscato i ricordo di quei fatti di gravità eccezionale, ma è per questo che intendiamo qui ricordarli: non è giusto che l'opinione pubblica dimentichi simili cose! Ci preme ancora precisare che qui noi diremo solo cose già scritte e rese pubbliche in passato, e non cose nuove. Tutto trae lo spunto da carta già stampata all'epoca e passata al vaglio di tutti gli organi di tutela giuridica possibili ed immaginabili. Ciò a scanso di equivoci.

Durante la gestione del generale Giudice, che fu comandante del Corpo per circa cinque anni, lo stesso aveva creato, all'interno del Corpo stesso, e partendo dal vertice, un'associazione che in altre situazioni di sarebbe definita in senso tecnico-giuridico "per delinquere", finalizzata al contrabbando degli olii minerali, con false documentazioni gestite da una rete capillare di ufficiali e sottufficiali del Corpo complici, e con l'apporto esterno di appartenenti all'Amministrazione Finanziaria. Diciamo tutto questo con profondo disagio e dispiacere, ma riteniamo che sia la pura verità. Al vertice di detta organizzazione era lo stesso Comandante Generale della Guardia di Finanza, il generale Giudice appunto, con i suoi poteri che aveva reso illimitati e la sua totale ferma decisione ad applicarli in tutti i sensi; suo collaboratore operativo più diretto era il Capo di Stato Maggiore del Corpo, generale Donato Lo Prete (che fino a non molti anni fa, non sappiamo ora, era ufficiale del Corpo nel ruolo del congedo assoluto), il quale aveva creato una rete di fedelissimi che assicurasse il funzionamento dell' organizzazione contrabbandiera avente lo scopo di dirottare le entrate erariali dalle casse dello Stato in altre casse che, per ora, definiremo "private".

Per chi si opponeva, o poneva in pericolo l'organizzazione criminale suddetta (non sapremo francamente come definirla altrimenti) il Comando Generale poneva in essere i poteri che le leggi dello Stato concedevano senza limitazione alcuna e, purtroppo, senza controllo: trasferimenti, carriere distrutte, e così via. Qualche suicidio (quello del maggiore Rossi) e qualche strano incidente occorso ad oppositori di Giudice e Lo Prete (quello del colonnello Florio) paiono completare il quadro; ma questi ultimi aspetti presentano molti lati non chiari, e quindi noi li riferiamo a puro titolo di completezza, senza nessuna pretesa di validità e senza voler fare affermazioni o deduzioni, per il semplice fatto che anche di queste cose, in quel contesto, all'epoca se ne parlò molto.

Per fare tutto questo, e cioè l'attività contrabbandiera, era necessaria, naturalmente, la complicità dei petrolieri, ma questa non venne certo a mancare: la possibilità, infatti, di realizzare grossi guadagni illegali, evadendo il fisco con il concorso attivo della Guardia di Finanza piacque subito a molti di quegli imprenditori! A fare da tramite tra i finanzieri corrotti ed i petrolieri contrabbandieri furono due Fiamme Gialle in congedo: Gissi e Galassi. Le cronache dell'epoca, a rileggerle, sono piene di quegli eventi e di quei nomi. Non interessa tanto qui l'esito giudiziario, quanto il clamore che quei fatti comportarono sui mass media.

Su tutta la vicenda, come la cornice di un quadro che raccoglie l'insieme, si stagliava la loggia massonica P2, la notissima illegale organizzazione di Licio Gelli. Ma di questa parleremo in seguito, in maniera più dettagliata, in uno specifico capitolo a parte. A questo punto, tuttavia, qualcuno vorrà porsi legittimamente la domanda del come possa, tutto ciò, essere accaduto in un regime democratico, con un controllo politico che tale regime democratico e parlamentare dovrebbe rendere non solo possibile ma inevitabile.

E i partiti? Il Parlamento? C'è una risposta anche a questo, se si tiene conto dei destinatari di quel fiume di denaro (molti, ma molti miliardi delle lire di allora). Le inchieste, giudiziario-penali, amministrative, giornalistiche, condotte hanno portato tutte ad una stessa conclusione: una parte di quel denaro sporco andava ad arricchire, oltre ai petrolieri contrabbandieri ed ai finanzieri e funzionari corrotti, anche le casse di partiti e di correnti politiche di quella cosiddetta (secondo noi impropriamente) "Prima Repubblica". In particolare, furono tirati in ballo alcuni politici vicini alla corrente dell'onorevole Moro, ma la cosa non dette risultati certi e definitivi e quindi noi citiamo qui il particolare a puro titolo di documentazione e di cronaca.

Con i dettagli di questa sporca vicenda si potrebbero riempire molti volumi, ma noi non lo faremo perché non è questo che ci interessa: riteniamo che la storia sia valida soprattutto se scritta per le grandi linee, quelle che mirano ad individuare e a descrivere esattamente l'intelaiatura dell'edificio, le strutture portanti degli eventi, e crediamo di averlo fatto; ancora, però, rimane da chiarire qualcosa di molto importante: perché uno come il generale Giudice aveva potuto avere mano totalmente libera all'interno di una delicata struttura come è quella del Comando Generale della Guardia di Finanza? Perché nessuno si era opposto, di quelli che avrebbero potuto validamente farlo? Apriremo qui un discorso a parte, più ampio e complesso, di carattere culturale di fondo circa il modo di essere del Corpo.


Servilismo e dignità

Nei decenni passati, chi frequentava il corso per ufficiali presso l'Accademia della Guardia di Finanza era sottoposto, è difficile dire quanto con piena consapevolezza da parte degli istruttori operanti, oppure per semplice indotto culturale che si ripercuoteva nei programmi e negli atteggiamenti degli istruttori stessi, ad un autentico "cambio di personalità" (almeno come tentativo) al fine di creare individui, per future funzioni di comando, con le caratteristiche più di esecutori di ordini che non di comandanti di uomini in grado di prendere decisioni autonome. Qualcuno potrà pensarla diversamente in proposito ma questa è la nostra opinione che proveremo a documentare.

Uno degli insegnanti dell'Accademia, più quotati ed influenti, nella seconda metà degli anni Settanta, quello di "Arte militare" (!) benché la suddetta materia avesse rilevanza zero per la futura attività operativa di quegli allievi, era solito pretendere che i suoi allievi imparassero, a memoria ("dovete ripetere le stesse parole del libro" diceva) lezioni di rara banalità. Usare una parola diversa, sia pur esprimente lo stesso concetto, equivaleva ad ottenere un cattivo voto che poteva, ad arbitrio di quell'insegnante caratteriale, addirittura comportare l'eliminazione di quel soggetto dal corso.

In tal modo, e cito solo questo esempio, ma molto più in proposito si potrebbe dire (e sono disposto a farlo come e quando chiunque volesse), si creavano i nuovi ufficiali di quel Corpo che avrebbe dovuto far rispettare il dettato costituzionale della legge uguale per tutti. A mio parere si volevano, invece, personalità sottomesse, assolutamente incapaci di pronunciare un sia pur doveroso (quando sarebbe stato necessario) "signor no". Un altro esempio in proposito: allorché un insegnante civile di procedura penale disse durante una lezione che il rapporto con la magistratura militare era un normale rapporto di polizia giudiziaria, l'ufficiale assistente che era presente intervenne e così si espresse sotto lo sguardo opportunamente silenzioso ma molto significativo del docente civile: "da noi il rapporto con la magistratura militare va tenuto solo dal comandante di Corpo e non dagli ufficiali di polizia giudiziaria". Quindi rivolto agli allievi: "Provate a trattare direttamente con i magistrati militari e vi prendete una stangata disciplinare dal vostro colonnello comandante".

Speriamo solo che oggi le cose stiano diversamente ma alla luce di quanto sopra è possibile capire molte cose. Quando il generale Giudice si recava in ispezione, a volte, mobilitava tutti i reparti oltre misura, senza che nessuno dei comandanti osasse rappresentare i limiti che pur la subordinazione militare non consente di superare. Forse tutto ciò era propedeutico ai fatti gravi che accadevano. A ciò è da aggiungersi una prassi giuridica che reggeva il Corpo, fortemente priva di possibilità di controlli e contrappesi. Le leggi erano totalmente sbilanciate nella loro esecuzione pratica dal lato del potere delle gerarchie, e ben poca possibilità aveva allora l'inferiore nel difendersi da abusi. Questa almeno era la situazione qualche decennio fa.

Per citare un caso specifico, nel 1972 il generale De Laurentiis (poi risultato essere massone coperto, ma di questo parleremo più diffusamente in seguito) trasferì da La Spezia a Santo Stefano di Cadore, in provincia di Belluno, e senza alcun conto dei disagi familiari che così procurava, un sottufficiale il quale, semplicemente, come era suo diritto sacrosanto previsto dalla legge, aveva sporto ricorso contro una sanzione disciplinare a lui inflitta e che riteneva ingiusta. Da allora molte cose, in effetti, sono cambiate, ma a costo di dure battaglie e di enormi sacrifici. Nulla è stato regalato dai vertici alla base. Quando un altro comandante generale si recava in ispezione in giro per l'Italia, pretendeva, per il pranzo, una grappa particolare che si produceva in esclusiva ed in modo artigianale solo nel Trentino. Era, dunque, necessario far muovere dei corrieri, a volte anche in elicottero per fare presto, per procurargliela. Potrà apparire strano, a molti, ma questa era la sacrosanta situazione dentro il Corpo della Guardia di Finanza allora. Era una situazione culturale di fondo molto specifica che costituì il brodo di cultura delle successive più gravi situazioni; quando, infatti, Giudice e Lo Prete decisero di creare al vertice del Corpo un'associazione quale quella descritta finalizzata al contrabbando, nessuno ebbe il coraggio di opporsi, neppure quei Generali di Divisione i quali, ai fini della carriera, nulla avrebbero avuto da temere. Non vi fu chi, come era suo dovere, seppe dire con la dovuta decisione "no" a tale situazione: non si avevano le strutture culturali idonee ad incidere su un sistema di potere che, comunque, anche se deviato e deviante, si preferiva lasciare così. Nessuno degli alti gradi, dentro il Corpo, seppe opporsi al duo Giudice-Lo Prete.

Non sapevano? Può anche darsi questo, noi non lo escludiamo, ma è certo che dentro il Corpo sapevano in tantissimi. Comunque, lo scandalo dei petroli, che qui sopra abbiamo indicato nelle linee essenziali, era solo l'inizio di un lungo tremendo periodo per le Fiamme Gialle.


I "Fratelli"

Da tempo il nome di Licio Gelli era sulle pagine dei giornali e di lui si erano venute conoscendo molte cose, ma pochi supponevano realmente il livello concreto del suo potere nella società italiana. Di lui si sapeva la vecchia militanza fascista, in camicia nera, tanto da essere stato incaricato, a quanto pare, di scortare, da Spalato fino in Italia, un grosso carico di oro della ex Banca di Jugoslavia     (da ciò inizia la sua potenza? Qualcuno lo afferma); durante la guerra civile, operò in Toscana sempre in camicia nera ma facendo sicuramente un doppio gioco, con la Resistenza e con l'"Intelligence" americana e così via, tanto da imboccare, fin da allora, quella oscura strada di manovratore da dietro le quinte di cui si vantava apertamente: il mio ruolo è quello del burattinaio, diceva.

Per venire alle nostre vicende (non è infatti di Gelli che qui dobbiamo occuparci, ma della Guardia di Finanza) fu all'inizio degli anni Ottanta che lo scandalo delle Logge Massoniche Coperte iniziò ad esplodere. Iniziò, abbiamo detto, perché, da allora, non è mai stato chiarito completamente, si è più volte riproposto, e, sia pur sommerso, è tuttora presente dietro le quinte. Ogni tanto riaffiora, e temiamo che la cosa debba ancora continuare. La presenza massonica tra gli alti gradi (e tra i meno alti) nella Guardia di Finanza era sempre stata sussurrata tra le fila del Corpo; qualcuno, come il generale Musto, non ne faceva affatto mistero, ma la ufficializzazione avvenne una mattina con la lettura delle pagine del Corriere della Sera, che fu il primo giornale a darne notizia.

C'era stata una perquisizione nella villa di Gelli a Castiglion Fibocchi, nei pressi di Arezzo, ordinata dai giudici milanesi Turone e Colombo, che si occupavano dell'affare Sindona, e fu proprio una pattuglia della Guardia di Finanza che scoprì un elenco pieno di nomi eccellenti di ogni genere, tra cui molti appartenenti alle Forze Armate e molti appartenenti al Corpo, quasi tutti alti gradi, ufficiali con incarichi importanti. C'era anche un maresciallo, uno solo, ma la cosa si poteva capire: si trattava del vice comandante del Nucleo di Polizia Tributaria di Arezzo, e Gelli, nella sua provincia, voleva essere particolarmente sicuro e garantito. L'opinione pubblica, così, venne a sapere cose molto interessanti: in primo luogo, da diversi anni al vertice del Corpo si erano avvicendati generali scelti proprio da Licio Gelli; anzi, una battuta che correva tra gli addetti ai lavori diceva proprio questo: le vere commissioni di avanzamento, specie, per gli alti gradi, si tenevano non in via Sicilia, sede allora del Comando Generale del Corpo, ma nell'albergo dove Gelli aveva il suo ufficio romano.

Erano massoni piduisti il già qui sopra descritto generale Giudice (scandalo dei petroli) e, soprattutto, il comandante generale in carica Giannini, di cui preciseremo qualcosa di più in seguito, ma era anche piduista l'altro "petroliere" Lo Prete, Capo di Stato Maggiore del generale Giudice suddetto, nonché tre altri precedenti comandanti in seconda: Scibetta, Musto e Spaccamonti. Avendo (riteniamo) descritto nelle sue linee generali la gravità e l'entità del fenomeno di degrado del panorama istituzionale che si era così raggiunto, pensiamo di potere soprassedere dallo scendere troppo nei dettagli circa tutti i restanti nominativi già più volte descritti dalla stampa dell'epoca e dei periodi successivi; basti qui dire che la rete in cui Gelli aveva avviluppato il Corpo era capillare ed efficace: molti ebbero la sensazione che più che a disposizione dello Stato e del Fisco, in un periodo ben lungo la Guardia di Finanza fosse stata al servizio di una Loggia Massonica Deviata, almeno ai suoi massimi vertici. E' sicuramente una impressione eccessiva, riteniamo, ma all'epoca questa fu la chiara sensazione nell'opinione pubblica. Ciò che verrà dopo, però, e cioè le reazioni e gli atteggiamenti relativi a tale non piacevole situazione, sarà ancora più interessante.

 

Allorché la stampa nazionale, all'inizio degli anni Ottanta, pubblicò gli elenchi dei piduisti, grande fu il fermento nel mondo politico italiano. Il governo, pieno di ministri e di sottosegretari piduisti, cadde (sulle mura di Napoli qualche buon tempone scrisse questa frase in dialetto: "O governo è caruto a coppa a loggia"); alcuni alti funzionari dello Stato si dimisero, altri, come il capo della diplomazia, ambasciatore Malfatti, rifiutò con decisione di farlo, e, passata la prima ondata di sdegno, ebbe ragione di questo comportamento tenuto; infatti rimase al suo posto. Alcuni aspetti dello scandalo avevano risvolti addirittura rivoltanti: uno degli appartenenti alla loggia coperta, uno straniero, era l'ammiraglio argentino Massera, responsabile di atrocità durante il periodo della dittatura che, tra l'altro, era in ottimi rapporti, e compagno nel gioco del tennis, con il delegato apostolico vaticano, monsignor Laghi, oggi cardinale, che non molto aveva fatto per difendere le vittime innocenti della dittatura sudamericana.

Il Comandante Generale della Guardia di Finanza in carica era Giannini, e fu costretto dal ministro Reviglio a dimettersi in quanto, a come sembra, aveva dichiarato allo stesso di non avere nulla a che fare con la Massoneria. I Cobar del Corpo approvavano documenti con cui si chiedeva chiarezza. Ma chiarezza non fu fatta, anzi! Furono nominate due commissioni di inchiesta interne, mentre una norma giuridica, subito approvata dal governo Spadolini, relativa alla disciplina militare, escludeva sostanzialmente la possibilità di procedere penalmente nella vicenda. Una commissione, relativa agli ufficiali in servizio, fu presieduta dal Generale di Divisione Dell'Isola, un'altra, relativa agli ufficiali in congedo, fu affidata ad un vecchio e rispettabile generale, all'uopo richiamato in servizio: Borsi Di Parma. Costui, mantenendo fede all'onore militare che sempre aveva contraddistinto il suo comportamento, condusse un'inchiesta seria e valida con assoluta chiarezza. Per quelli in servizio vi fu un'altra inchiesta: come abbiamo già detto, il Comandante Generale in carica, Giannini, fu costretto a dimettersi in quanto piduista; al suo posto però, non fu subito nominato un sostituto.

La cosa parve strana: l'Italia pullulava di generali di Corpo d'Armata senza incarico e vogliosi di ricoprire quella delicata ed importante poltrona ma tutti i politici, anche il PCI, non ebbero alcuna voglia di fare in fretta; era chiaro che si voleva prendere tempo. Vediamo perché. Stante la "vacanza" al vertice del Corpo, il Comando facente funzione fu tenuto, per alcuni mesi, dal Comandante in Seconda, generale De Laurentiis. Era un ufficiale molto noto, per avere fatto parte, in gioventù, della Resistenza tra i partigiani bianchi, e, dopo, per avere fatto parte del gruppo di ufficiali frequentatori di corsi antiguerriglia negli USA, ottenendo punteggi altissimi. Da colonnello aveva comandato la Legione di Trento durante il periodo del terrorismo altoatesino, instaurando una disciplina rigidissima verso i suoi uomini, con arresti, denunce, migliaia di gravissime punizioni disciplinari.

Fu sotto la sua gestione che fu condotta l'inchiesta contro gli ufficiali piduisti inquisiti, ma, nei loro confronti, non fu usata la stessa disciplina che era stata usata verso i finanzieri che in Alto Adige davano l'alto là ai superiori in giro d'ispezione con un attimo di ritardo (cosa che spesso provocava il loro arresto). L'inchiesta fu condotta rapidamente e nella massima segretezza e si concluse con lievissimi rilievi disciplinari relativi a "responsabilità residuali". In sostanza, aver fatto parte di una Loggia Coperta ed illegale, che il Parlamento aveva considerato eversiva, fu sanzionato con le stesse punizioni relative a chi aveva la divisa in disordine ed i capelli lunghi. Il perché si capì dopo e la storia è tutta da descrivere qui di seguito.


Dopo la P2

L'affare Sindona è stato uno degli scandali più totali e gravi di questo dopoguerra, capace, da solo, di condannare una intera classe politica ed un intero periodo storico. Mai come in quel caso si vide la palese complicità tra potere dello Stato e malavita capitalistica. Si giunse persino, e non una sola volta, al delitto (avvocato Ambrosoli, lo stesso Sindona, Pecorelli) ma non è di questo che qui dobbiamo parlare. L'affare Sindona ci consente solo di introdurre l'argomento che ci interessa, e cioè la presenza massonica all'interno della Guardia di Finanza.

Andiamo con ordine. La gravità degli episodi legati a questo affare obbligò la classe politica ad indire una commissione d'inchiesta parlamentare, presieduta dalla parlamentare democristiana Tina Anselmi, vecchia partigiana e persona di carattere. I risultati della commissione, nonostante tutto il suo impegno, non furono determinanti ai fini del chiarimento totale di quelle vicende, ma, come incidente di percorso, un episodio davvero importante, venuto ad inserirsi, consentì di far luce su uno dei segreti più coperti d'Italia.

Fu, infatti, ordinata una perquisizione alla sede del Grande Oriente d'Italia, ed, in quella sede, fu rinvenuta vasta documentazione. Mancava ancora molto, naturalmente, né questa parte mancante fu mai più trovata. Ma quello che fu acquisito agli atti, e pubblicato, per esclusiva volontà della presidente Anselmi, contro molti, è una pagina preziosa per la storia reale del nostro Paese, quella che avviene dietro le quinte. Vi era, infatti, parte della documentazione relativa alla Massoneria Coperta nel nostro Paese: altri personaggi importanti di obbedienza massonica che così lasciava intravedere ancora di più il suo fortissimo potere sulla società italiana.

Molti erano gli ufficiali della Guardia di Finanza, in servizio ed in congedo, che vi erano compresi, ma una cartella, in particolare, fu principalmente importante. Sul tavolo del Gran Maestro, infatti, vi era il  fascicolo personale di un Generale di Divisione del Corpo. Il motivo per cui quelle carte delicatissime fossero lì, e fossero state prelevate dall'archivio segreto (quello non scoperto), era in relazione ad un contrasto personale tra i due, il Gran Maestro in carica, che era un generale in congedo, ed il nostro generale in servizio (ma che sarebbe andato in congedo prima della pubblicazione degli atti): il Gran Maestro, a quanto pare, voleva veder chiaro fino in fondo nella carriera massonica di questo "fratello" che non mostrava, a suo dire, verso di lui, il riguardo che egli riteneva dovutogli.

Fu così che la commissione acquisì la cartella completa di quel "fratello" in Fiamme Gialle. Chi era? Il generale De Laurentiis, colui, cioè, che aveva avuto come detto qui sopra l'incarico di condurre le inchieste contro i massoni coperti! A questo punto è facile capire perché tutto fosse finito con un quasi nulla si fatto. Il potere massonico occulto era riuscito a gestire anche l'inchiesta contro se stesso, con il pieno consenso, ovviamente, dei poteri dello Stato. Ma vediamo chi era il generale De Laurentiis: massone fin dagli anni Cinquanta, affiliato alla Loggia di Mogadiscio (Somalia) dove era addetto all'ambasciata d'Italia, aveva riconfermato il suo giuramento negli anni Settanta a Santa Margherita Ligure. Per eccesso di segretezza, benché facesse parte di una loggia massonica coperta, aveva assunto un ulteriore nome di copertura: Flora! Era lo stesso nome che usava quando, comandante a Trento, andava in giro d'ispezione armato di due pistole, ricordo dell'esperienza americana.

A questo punto i lettori avranno capito quale attendibilità sostanziale possa essere data alla validità delle inchieste condotte, dentro il Corpo, contro i massoni coperti con queste condizioni. Essi rimasero sostanzialmente dentro il Corpo, tranne specifici casi di esodo ben settorializzati e volontari e la pulizia, tanto auspicata da tutti a parole, non fu mai veramente realizzata. Sotto quella vicenda rimane una pesante cappa di sospetto; fu quella cappa su cui ebbe modo di crescere e maturare, dato il senso di impunità che inevitabilmente si era creato, l'atmosfera adatta al futuro grande scandalo degli anni Novanta, quello di Tangentopoli.

 
Il colmo

La corruzione politica, e pubblica in Italia, è spesso stata avvertita dai cittadini come qualcosa difficilmente eliminabile, di quasi necessario; deprecabile certo, ma da sempre esistito, connaturato alla natura umana, e tutto sommato accettabile, a condizione che non si esagerasse con  la stessa corruzione. L'italiano comprende molto il funzionario che approfitta della sua funzione pubblica per arricchirsi; è un aspetto negativo della nostra gente, e proprio da questo sottofondo psicologico collettivo derivano alcune attuali rivalutazioni di personaggi politici colpiti e distrutti dall'azione giudiziaria di qualche anno fa. Lo hanno sempre fatto tutti, perché a pagare devono essere solo loro? Questo discorso, che si sente nelle strade di tutte le città della penisola, dà più di ogni altra rilevazione statistica l'idea chiara di quale sia in proposito l'opinione pubblica: rubare pazienza ma a condizione di non esagerare!

Per questo motivo gli scandali hanno sempre allignato nell'Italia del dopoguerra e, spesso, sono rimasti sostanzialmente impuniti. Erano ancora gli anni Cinquanta quando iniziò il primo grande scandalo, quello INGIC, che vide, tra gli interessati, anche un ex comandante generale del Corpo e che non ebbe mai sbocco giudiziario definitivo. Pur con qualche variante ed in maniera meno clamorosa la cosa si sarebbe ripetuta nei decenni successivi con altri episodi. Tutto questo, ovviamente, è cronaca già scritta con dovizia di particolari.

Se all'inizio degli anni Novanta esplose in Italia lo scandalo di Tangentopoli, che smosse senza capovolgere il panorama politico del Paese, ciò fu dovuto a vari fattori, anche di carattere internazionale, ma uno dei fattori fu sicuramente questo: nel rubare, si era esagerato, ed allora necessitava una correzione di rotta. Non tale da capovolgere una situazione, infatti solo alcuni degli uomini politici furono spazzati via, solo alcuni partiti furono investiti dalle inchieste, e gli altri rimasero tutti al loro posto e ci sono ancora, ma tutti ritenevano che la situazione fosse da rettificare dati gli eccessi compiuti. E veniamo alla Guardia di Finanza. Quale era la situazione? Focalizziamo la realtà alla sede di Milano, dove, appunto, esplose con maggiore violenza una situazione di malcostume che, però, non poteva considerarsi limitata a quella sola sede. I fatti di cronaca lo mostrano.


Milano

Erano gli anni Sessanta quando, lungo i corridoi del Nucleo di Polizia Tributaria di Milano, un finanziere addetto alle pulizie (allora erano gli agenti di polizia giudiziaria, polizia tributaria, Pubblica Sicurezza nonché pubblici ufficiali a fare da operatori ecologici dentro le caserme, con quanta dignità per l'uniforme si può ben immaginare!) rinveniva una busta. Apertala, vide che conteneva una somma, notevole per l'epoca, di alcune centinaia di migliaia di lire, quando lo stipendio mensile di un sottufficiale anziano a stento raggiungeva le centomila lire. Il finanziere-spazzino portò quella busta al sottufficiale d'ispezione (negli anni successivi è stato uno dei miei dipendenti) il quale, a sua volta, la portò all'Aiutante Maggiore, che la consegnò al Comandante.

"Aspettiamo che chi l'ha perduta venga a richiederla", disse il Colonnello, ma attese invano. Nessuno ebbe il coraggio di presentarsi a richiedere quei soldi, frutto, evidentemente, di una "bustarella". Ed a Milano le bustarelle, a quanto pare, correvano a fiumi, consentendo non certo a tutti, perché molti  erano ancora onesti, ma ad alcuni sì, tenori di vita quanto meno strani, esibiti a volte senza cautela. Ad esempio, un ufficiale, che aveva la fidanzata (poi moglie) a Parigi, ogni venerdì sera prendeva l'aereo per la capitale francese, e tornava con lo stesso mezzo il lunedì mattina. Con i soldi risparmiati dallo stipendio? Non sarebbero bastati, conti alla mano, per comprare quattro biglietti al mese andata-ritorno per Parigi. Non erano in molti quelli che ritenevano di doversi intromettere in queste faccende. Un giovane ufficiale, un giorno, mi raccontò la sua esperienza: era stato assegnato al Nucleo Regionale di Polizia Tributaria di Milano e, guardatosi attorno, rimase spaventato dal prezzo degli affitti di casa. Ne parlò con i suoi dipendenti e si sentì rispondere, con la massima tranquillità: "Non si preoccupi signor tenente, volendo si può arrotondare lo stipendio". Allora chiese il trasferimento, e fu subito accontentato, in Sicilia, nella località dove era nata la moglie. Un altro sottufficiale, aveva la passione dei cani di razza; due volte alla settimana comprava chili di prosciutto pregiatissimo e costosissimo per alimentarli. Tutti vedevano, ma non erano molti a ritenere di doversi interessare ulteriormente della faccenda. Una volta un generale sdegnato pose uno stop alle verifiche fiscali: finché comandava lui solo "informative!". Non voleva grane, lui! Poi lui andò via e le verifiche ripresero.

La situazione milanese era da tempo risaputa, nel Corpo, in maniera diffusa a livello nazionale. Correvano barzellette pesanti in proposito. Ma sorvoliamo su queste cose: non  riteniamo essenziale un approfondimento ulteriore di dettaglio, una volta descritta la situazione complessiva. Eppure il Comando Generale mandava, a comandare quel reparto, i migliori ufficiali, quelli più qualificati e lanciati, quelli destinati a fare più carriera, ma la cosa non serviva. Quello che accadde, ai tempi di Tangentopoli, a Milano, a me lo aveva anticipato, a Napoli, un valoroso sottufficiale, uno dei più seri che abbia mai conosciuto. Ma anche qui non dico cose inedite.

Per un periodo, all'inizio degli anni Ottanta, cioè dieci anni circa prima dello scandalo, lo ebbi alle mie dipendenze. Ecco come mi descrisse la situazione milanese: in alcune sezioni, quando la mattina il Comandante consegna alle pattuglie la pratica da sbrigare, a matita, sul fogli di servizio, segna anche la somma che, come tangente, a suo parere la stessa pratica deve fruttare. Al ritorno, egli divide la quota tra i militari e trattiene la parte da consegnare all'ufficio del comando competente, perché faccia altre divisioni che vanno a finire anche fuori Milano. Io non credetti tanto a questa affermazione: mi sembrò eccessivo, paradossale, questo sistema, ma quando lo scandalo di Tangentopoli scoppiò, il tutto venne confermato dalle indagini giudiziarie. Possibile che la situazione fosse stata fatta degenerare fino a quel punto? Eppure fu così.

Qualcuno forse troverà da ridire su questo mio modo di scrivere e su questo trattare tali argomenti, ma chi ha vissuto come me queste situazioni, ed ha visto la degenerazione di alcune istituzioni del Corpo di cui facevo parte, non adeguatamente fronteggiata come avrebbe dovuto essere, non può che conservare per sempre lo sdegno contro queste cose. Siamo convinti che oggi quegli eventi siano lontani e le cose siano cambiate; ne siamo convinti, e lo speriamo. Oggi però io sento il doloroso dovere di ricordarlo, perché all'epoca si sarebbe potuto fare di più per impedirlo. Gli elementi di sospetto, infatti, erano numerosi, e non si capisce perché non si siano ottenuti, da parte del Comando Generale, risultati migliori in materia di prevenzione. Nei miei confronti, per una truffa inesistente, di cui fui accusato, furono poste in essere indagini capillari in tutto e per tutto degne di un'indagine nei confronti di Totò Riina. E circa le voci su Milano?

Scoppiato lo scandalo, l'onorevole Violante, allora come ora autorevole esponente del partito che aveva ritenuto superato Antonio Gramsci, si recò a Milano dal generale e, con grande pubblicità, assicurò che nulla sarebbe accaduto da parte del suo partito verso i vertici del Corpo, nessuna inchiesta parlamentare. Nessuno avrebbe chiesto conto della "culpa in vigilando". Poco dopo, lo steso politico avrebbe riabilitato i "bravi ragazzi di Salò". All'epoca Violante era Presidente della Camera e quindi era la terza carica istituzionale dello Stato. Fu determinante la sua presa di posizione per evitare quella inchiesta parlamentare che molti richiedevano circa la situazione complessiva degli ultimi decenni nella Guardia di Finanza.

Il ministro incaricò il Comando Generale di fare un'inchiesta sugli ultimi episodi, e tutto finì lì. Gli atti di quella inchiesta non sono mai stati resi pubblici, come accade di consueto, e quindi anche questa volta nessun approfondimento esterno è stato compiuto su deviazioni così gravi. Tutti al mare, dunque, a Venezia, per l'ultima "tranche" della corruzione.


Venezia ultima tappa

Il Nord Est, ultimo lato aggiunto al quadrilatero industriale dell'Italia ricca, è sempre stato particolarmente colpito da fenomeni di corruzione che hanno visto protagonisti appartenenti al Corpo della Guardia di Finanza. Sfortuna? Destino? Altro? Nulla di tutto questo! Il fatto è che la cultura di quelle popolazioni è diversa. Condizionate ancora dalla memoria storica del dominio asburgico, e della sua esemplare amministrazione, i veneti, i friulani, i giuliani sopportano molto meno di altre popolazioni italiane gli abusi dei pubblici funzionari e, così, appena possono, ricorrono alla giustizia. Altrove non sempre accade così. Rimase famoso, negli anni Settanta, il caso di quel capitano di Treviso. Essendosi recato presso una ditta per riscuotere, in base all'accusa, personalmente una tangente di quindici milioni di lire (allora erano molti) si accorse dell'arrivo dei carabinieri che, avvertiti dal titolare della ditta, stavano tendendogli una trappola per coglierlo in fallo. Sempre secondo l'accusa, con eccezionale prontezza si chiuse nel bagno e, resistendo ai tentativi di farlo uscire, lacerò e buttò nello scarico tutte le banconote facendo scorrere l'acqua. Alla fine uscì indenne da quel processo giudiziario, e quindi per noi fu l'accusa ad avere sbagliato tutto, ma comunque lasciò il Corpo. Fu però una situazione spiacevole anche quella. Un ufficiale non dovrebbe mettersi, seppur non colpevole, in quelle situazioni.

Questo, in ogni caso, per indicare una certa atmosfera che i finanzieri, corretti e prudenti, che tali situazioni non hanno mai creato, sono stati costretti a subire negli ultimi decenni. A volte c'era davvero imbarazzo ad indossare questa divisa. Speriamo che non accada più per l'avvenire. Sono state le molte situazioni con esito giudiziario negativo, per le Fiamme Gialle, che, invece, hanno indotto, non molto tempo fa, i giudici di Pinerolo a parlare, provocando le proteste del Cocer, di "predisposizione genetica" da parte di alcune Fiamme Gialle alla corruzione.

Ed una autentica banda aveva costituito, negli ultimi anni del Millennio appena trascorso, il Comandante del Nucleo Regionale di Polizia Tributaria di Venezia, con un altro ufficiale superiore, il quale aveva addirittura creato una società immobiliare per amministrare il suo patrimonio (creato, ovviamente, con i risparmi dello stipendio e con  la dote della moglie) ed altri, anche civili. La sentenza stilata in proposito dai magistrati, di particolare durezza, ha riguardato anche, per la prima volta, i superiori degli stessi, accusati e poi prosciolti per prescrizione, per non essere adeguatamente intervenuti contro quei casi di plateale corruzione. Ma il problema morale rimane tutto. Il Comandante di Venezia, benché inquisito in maniera pesante, non fu tolto dal servizio, bensì inviato a comandare un altro importante nucleo regionale di polizia tributaria, quello di Bari, e qui arrestato. Non si poteva evitare tutto questo?

Cosa sarà per l'avvenire? E' frequente leggere, sulla stampa, notizie di appartenenti al Corpo arrestati o denunciati per i più vari reati; naturalmente il cittadino è innocente fino a sentenza definitiva e nulla vuol dire in proposito un arresto; molti alla fine vengono anche assolti, come il capitano di Treviso sopra citato. Non escludiamo nemmeno che molti dei casi giudiziari qui sopra citati si siano conclusi con assoluzioni, ed in proposito mettiamo in guardia i lettori da non considerare le nostre affermazioni come affermazioni definitive; siamo a disposizione con il nostro giornale per tutte le precisazioni che dovessero essere necessarie, ma rimane un dubbio, e questo ci preme nel complesso evidenziare, che quando sono molti i casi di coinvolgimento di appartenenti al Corpo, in situazioni problematiche, sia pur con esito per loro alfine positivo, è in ogni caso tutto questo negativo per l'immagine dell'istituzione. Quando le inchieste diventano troppe, comunque vadano a finire, c'è qualcosa che non va nel complesso. Questo ci dispiace e vorremmo che fosse evitato per l'avvenire. Vediamo però che purtroppo ancora non è così.


Casistica attuale

Citeremo ora qualcuno dei casi che compaiono sulla stampa e sulle agenzie negli ultimi mesi ed anni, senza approfondire gli stessi, ma semplicemente per dimostrare che trattasi di un problema ancora attivo. Corriere della Sera del 25 luglio 2000: Berlusconi autorizzò tangenti, ma erano diffuse ­ i giudici spiegano l'assoluzione per le mazzette alla Finanza. Silvio Berlusconi ha fatto corrompere tre volte la Guardia di Finanza in altrettante verifiche fiscali in società Fininvest, ma lo ha fatto in un periodo nel quale l'illegalità diffusa ed il mercanteggiamento della funzione pubblica erano arrivati a vero e proprio sistema.

Precisiamo noi: il Corpo della Guardia di Finanza, avrebbe il compito di impedire proprio quei casi di corruzione che Berlusconi avrebbe posto in essere e non assecondarli. Ansa ­ Genova, febbraio del 2003: Finanzieri e commercialisti, scoperto giro di mazzette a Genova. Ansa ­ Sanremo ­ Imperia: Convalidato arresto maresciallo GdF. Ansa, novembre 2003: Ufficiale Finanza indagato per concussione a Bologna. Ed infine La Repubblica del 14 febbraio 2004: Calisto Tanzi, Sergio Cragnotti ed un ufficiale della Guardia di Finanza fotografati insieme.

In proposito, precisiamo che è stato emesso un comunicato stampa, del Comando Generale, che intende allontanare ogni strumentalizzazione in proposito. Lo riteniamo giusto, ed attendiamo solo l'esito delle indagini circa gli episodi Cagnotti e Tanzi. Noi ci attendiamo che l'immagine del Corpo rimanga del tutto estranea da quegli episodi, anzi ne siamo sicuri; citiamo solo, a titolo di completezza di documentazione, quello che un giornale importante come La Repubblica ha pubblicato.


Per concludere

                            

   "Siate duri, dopo di noi, e passate la consegna
                                a quelli che verranno, fino alla fine dei tempi"
                        Victor Serge

 

Pensiamo di poter porre termine qui a questa trattazione, e vorremmo davvero che la stessa non dovesse avere più un seguito, cioè che non vi fossero più casi di nessun genere di malcostume vero o presunto che coinvolgessero appartenenti al Corpo. Gli eventuali lettori vorranno perdonare se, tuttavia, anche in questa  conclusione, così come già nella premessa, non saprò sottrarmi alla tentazione di personalizzare la cosa. Negli anni precedenti lo scoppio dei gravissimi episodi di Tangentopoli, qui sopra citati, che videro coinvolti pesantemente alti ufficiali della Guardia di Finanza, contrariamente a quanto molti forse ancora pensano, la situazione reale, circa la corruzione, in alcuni prestigiosi reparti dell'Italia era ben nota all'interno del Corpo, come già detto qui sopra, tanto da essere voce comune, e lo stesso dicasi per alcuni grossi arricchimenti, difficili da motivare circa i quali, comunque, chiarezza potrebbe essere fatta solo con un'inchiesta parlamentare. Solo il Parlamento, infatti, potrebbe acquisire la documentazione contenuta in inchieste interne, cartelle personali e così via agli archivi del Comando Generale del Corpo.

Altra cosa, naturalmente, era disporre da parte di chi aveva sentori e voci, di elementi di prova tali da portare davanti ai magistrati le persone eventualmente responsabili. Personalmente, però, l'avere rapporti, di qualsiasi genere, con altri ufficiali notoriamente "chiacchierati", era per me motivo di grosso fastidio, quasi epidermico, per cui, se potevo, ne facevo volentieri a meno. Accadde, così, che fu organizzato, una decina di anni fa, un pranzo ufficiale al Comando al quale appartenevo, con la presenza, per me fastidiosa, di qualcuno di questi personaggi, poi arrestato in seguito all'indagine di Tangentopoli.

Pregai così un collega di prendere il mio posto nel pranzo suddetto, cosa che questi fece ben volentieri. La cosa poteva anche finire così, come atto di buon senso, ma evidentemente il mio comandante, poi anch'egli arrestato per casi di Tangentopoli, non la pensò così, e decise di approfittare dell'occasione per aprire un'inchiesta disciplinare nei miei confronti. Le mie idee ed i miei atteggiamenti non sempre erano ben visti da tutti, e spesso le gerarchie militari, almeno in passato, usavano lo strumento disciplinare per raggiungere, in maniera trasversale, obiettivi che altrimenti, per vie legali, stentavano ad ottenere. Mi fu così inviata una riservata personale nella quale mi si chiedeva di chiarire il perché della mia sostituzione al pranzo.

Il tono della lettera era tale da indurmi a rispondere per le rime: non riesco a trovare, in nessun articolo di legge o di regolamento del Corpo, il servizio di "pranzo", risposi. Io sono nella Guardia di Finanza per prestare servizio contro i reati e contro l'evasione fiscale; per il resto, preferisco scegliere le persone con le quali mi intrattengo a tavola. La cosa si concluse con un richiamo disciplinare da parte del superiore nei miei confronti. Dopo pochi mesi, i giornali di tutta Italia davano notizia dell'arresto di questo superiore da parte dei giudici milanesi che indagavano sulla corruzione.

Nessuno ha provveduto, nell'ambito gerarchico, a cancellare quel richiamo disciplinare di cui qui sopra; per le gerarchie esso è ancora legittimamente dato né, francamente, la cosa mi interessa più di tanto. Ritengo, però, che se al Comando Generale del Corpo non inizieranno a riflettere anche su queste cose ed a ripensare il loro atteggiamento verso il passato di chi era corrotto e di chi invece ha lottato contro la corruzione, rimarranno, sia detto con ogni riguardo, su di una lunghezza d'onda inadeguata, non fosse altro che dal punto di vista psicologico. Fare i conti con il passato è importante, oggi lo dicono in molti. Non pensa il Comando Generale che sia un'osservazione giusta? In ogni caso, per quella mia pratica disciplinare sulla sostituzione al pranzo, di cui qui sopra, nulla osta, da parte mia, se si volesse renderla pubblica. Sarebbe, forse, per i cittadini uno spaccato interessante di come, dieci anni fa, la Guardia di Finanza impiegava, agli alti livelli, il tempo retribuito dallo Stato.




Voglio concludere con Bertold Brecht:

"Non arrendetevi compagni!
La conclusione si vedrà solo  dopo l'ultima battaglia!".
E vale anche per i non "compagni", naturalmente!



Supplemento al nr.2 de "Il Movimento", del 22 maggio 2004
Editrice Finanzieri Democratici