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Il Messaggero Veneto 31-05-2002

Riva: l'articolo 18 è una provocazione

L'economista ospite del Cism: il governo ci mette in competizione con la Romania, non coi Paesi evoluti

UDINE - Dove va l'economia italiana? «A parte alcune punte di eccellenza, mi preoccupa il decadimento». Pessimista? «Sul medio - lungo periodo, sì. Nel passato prossimo abbiamo perduto la chimica; oggi rischiamo l'automobile; e l'energia, la importiamo dall'estero; con l'aggravante che il rubinetto è in mano altrui, come la tecnologia. Altro esempio: la sanità divora enormi risorse, ma per la farmaceutica siamo eterodipendenti». Il risultato? «Diventeremo più poveri, così come al tempo delle svalutazioni competitive. Drogavano per un po' l'economia, ma sulla distanza la stressavano».

È severo Massimo Riva - editorialista economico del gruppo Repubblica - Espresso oltre che storico e saggista e già parlamentare - che, parlando al Cism di economia e mercato del lavoro, ha fatto trapelare una corposa diffidenza sulle future sorti e progressive così come sono accreditate dal governo. Lo inquietano soprattutto gli scricchiolii provenienti da settori un tempo trainanti, che evidenziano - osserva Riva - il vero tallone d'Achille della nostra economia: la sua difficoltà a produrre valore aggiunto e e a investire sulla ricerca.

Anche nel Nord Est?

La sua vitalità, straordinaria, si fonda sull'inventiva e sulla commercializzazione. Ma il suo successo è troppo legato alla domanda estera per non pensare che sia l'indotto di sistemi esterni. Se l'euro si rivaluta sul dollaro, ce ne accorgeremo: pagheremo meno l'energia, ma per il resto avremo più problemi di quanti ne risolveremo. Anche nel Nord Est.

Il mercato del lavoro friulano è caratterizzato da un tasso di disoccupazione fisiologico. In questo contesto le modifiche dell'articolo 18 sono giudicate ininfluenti. Se è così, come spiega l'impuntatura dei sindacati?

Con l'ingresso in zona euro il nostro Paese si è vista preclusa la strada, prima battuta, degli aggiustamenti monetari. Per recuperare competitività si è quindi puntato sul fattore lavoro. Le rigidità esistono. Sul versante della domanda la contrattazione prefigura a priori figure standard, mentre sul versante dell'offerta cresce la flessibilità. E questo rende difficile il loro incontro. Se l'articolo 18 ha valenza economica ridotta, o nulla, ne ha una - politica - altissima. Dal punto di vista sindacale, quindi, la sua modifica non è nient'affatto ininfluente: simboleggia l'emancipazione dei lavoratori dalla "merce - lavoro" e li presenta come titolari di diritti.

Se l'articolo 18 non ha alcuna valenza economica, in particolare in un Friuli con piena occupazione, come spiega sia stato preso a spunto di una guerra di religione?

Ricercare delle compensazioni sul versante del lavoro è un rimedio un po' primitivo, perché ci mette in competizione con Paesi come la Romania dove infatti emigrano le lavorazioni ad alta intensità di manodopera. In questo contesto l'articolo 18 è una sciagurata provocazione destinata a spingerci in un cul de sac e a distoglierci da ben altri obiettivi. Non è senza significato che gli investimenti in ricerca - i soli in grado di metterci al passo dei Paesi evoluti ­ siano scesi con questo governo sotto l'uno per cento.

Ancora sull'articolo 18. Gli scioperi minacciati dai sindacati possono trasformarsi in un boomerang politico?

Può darsi.

Le aziende friulane cercano immigrati che non trovano; e al governo chiedono di "regionalizzare" le quote. Come giudica questa situazione alla luce dell'imminente sì alla legge Fini-Bossi?

Mi pare evidente che la nostra politica dell'immigrazione sarebbe dovuta ruotare, più che sulle limitazioni quantitative, sull'incoraggiamento della caratura qualitativa. In altre parole, dovremmo tendere a importare tecnici piuttosto che manovali. Invece la legge non prende in considerazione quest'ultima necessità.

Perché?

La logica del governo considera questo problema sotto l'angolatura dell'ordine pubblico. E tanto basta per considerarla inficiata da una certa rozzezza culturale. Il governo guarda alle reazioni viscerali dell'elettorato, non all'interesse del Paese.

La flessibilità del lavoro è considerata un fattore competitivo sempre più determinante. Lo è altrettanto anche la flessibilità contrattuale?

Abbiamo una contrattazione su due livelli, nazionale e decentrato. Cosa dovremmo fare, eliminare il primo? No, perché garantisce un trattamento minimo, mentre il secondo è legato a fattori locali, alla produttività. L'Istat ha messo in evidenza che negli ultimi 6 anni i salari sono cresciuti un po' meno dell'inflazione. Lo scarto è massimo nell'industria. Il recupero, invece, si è manifestato nella contrattazione decentrata. Il problema che lei ha evocato è dunque un falso problema.

Nella globalizzazione il ruolo del sindacato è cambiato?

Due secoli fa il padre del liberalismo, Adam Smith, lamentava che in Inghilterra i sindacati non erano abbastanza forti da spingere le imprese a recuperare attraverso l'innovazione i maggiori costi che il sindacato infliggeva loro. È una lezione da non dimenticare.

E.S.