CAPITALISMO COL CAPITALE DEI CONTRIBUENTI
Ogni tanto si fa un gran parlare di Far West nel nostro Paese, due paroline corte e molto popolari che ricordano un mondo senza intralci, facile da capire, fatto di banditi e sceriffi, di pugni e duelli, e che ormai si riferisce praticamente a tutto: agli spot televisivi, al conflitto d'interesse, ai condoni, alla periferia di Napoli, per non parlare poi del Far West degli embrioni che fu ripetuto a mo' di cantilena per far passare una legge infame come quella sulla fecondazione assistita. Due paroline, dunque, che sono la via più breve per non chiamare tante cose con il loro vero nome a cominciare dall'illegalità nella quale siamo specialisti: mafie, camorre, 'ndranghete, ecc. Interessi malavitosi in guanti bianchi e collusioni di poteri finanziari con lo zampino della politica. Ebbene, dopo tanto uso e abuso di Far West, stupisce un'omissione di prima grandezza, una dimenticanza che appare come un lapsus freudiano, la clamorosa esclusione è quella riferita al Far West del capitalismo nostrano.
In un'altra occasione, parlando del caso della compagnia di assicurazioni triestina Sasa e di come questa fu regalata a Ligresti, si diceva che il nostro capitalismo, s'ammanta di trasparenza e di rinnovamento, ma nei fatti è oscuro e conservatore, ostenta un bisogno di etica e fa sfoggio di una concezione quasi religiosa nel creare profitto per sé e ricchezza per tutti, ma appena può socializza le perdite e privatizza gli utili (per dirla alla Ernesto Rossi), si copre e si ricopre della difesa della libera concorrenza e del mercato, ma nella pratica si abbarbica dietro qualsiasi aiuto pubblico. Ebbene, è nel nostro capitalismo che si annida il vero Far West perché sulla carta è fatto di pensiero liberale, ma alla prova dei fatti diventa "pre-pre", cioè un capitalismo tanto predatorio nel comportamento quanto predicatorio nei salotti. Ecco dunque l'annoverarsi di casi come Cirio, Parmalat, Impregilo, e adesso Alitalia e Telecom. Dalla piccola Sasa alla grande Telecom, il capitalismo italiano mostra tutta la sua vulnerabilità, la sua vocazione a occupare posizioni di rendita più che a rischiare nella competizione. Un capitalismo a corto di capitali guidato da un management a corto di idee.
Ciò che succede con Alitalia è sotto gli occhi di tutti, il titolo sta cadendo in borsa e non si intravede alcuna terapia finanziaria per il rilancio della competitività dati gli alti costi unitari che portano inevitabilmente ad elevate tariffe, quindi ad un volume di traffico insufficiente e di conseguenza ad un fatturato assai scarso. Non siamo stati in grado di privatizzarla e adesso è un gigante con i piedi di argilla che stenta a sopravvivere. Del resto, non ce l'hanno fatta ben altre compagnie più efficienti che svolgevano servizi analoghi per Stati più piccoli, come SwissAir e Austria Airlines, dunque, nulla da sorprendersi se non appare in grado di farcela neppure la nostra compagnia di bandiera che per numero di aerei moderni e di linee internazionali è troppo piccola per essere grande e, nel contempo, è troppo mastodontica per numero d'addetti e struttura commerciale e manageriale, per essere piccola. Si tratta di una deviazione degli assi oculari che dà ragione ad un occhio oppure all'altro a seconda di come si guardi la situazione: l'occhio dell'economia liberale la vuole piccola e risparmia sull'unica cosa che può, cioè sugli aerei; l'occhio sindacale, invece, la vuole grande (per tramandare il proprio potere) e mantiene così un numero esagerato di personale e di management allo scopo di perpetuare le proprie rendite di posizione. Alitalia gode su alcuni percorsi nazionali, di una situazione di quasi monopolio ma non è concorrenziale nei voli internazionali, perciò, nonostante le tariffe elevate, presenta perdite assai rilevanti. E' sbagliato incolpare il rincaro del carburante oppure che dopo l'11 settembre del 2001 le misure di sicurezza hanno accresciuto i costi dei controlli da un lato e le rinunce a viaggiare, dall'altro. Questa è una condizione comune a tutte le compagnie aeree. Tirarle in ballo è pretestuoso come dire che una squadra ha perso perché pioveva.
Dall'altra parte, c'è il caso Telecom Italia che pone al Paese domande a riguardo delle grandi compagnie che ormai non ci sono più e del nostro destino di avere solo imprese piccole e medie. Come possiamo pensare di affrontare con queste dimensioni la gestione dei servizi o delle reti infrastrutturali per competere globalmente? Avere o no la proprietà delle reti (di telefonia o del gas o dell'energia) può essere importante; però non si tratta di avere la proprietà della gestione ma delle infrastrutture. Ma con i debiti che ha Telecom, oltre 40 miliardi di euro, com'è possibile che qualcuno pensi di spendere dieci miliardi di euro per acquistarne un pezzo? Si è fatto una cagnara impressionante per buttare giù la manovra da 35 a 30 miliardi, e adesso se ne cercano 10 come se nulla fosse per consentire a qualche privato di rimborsare i propri debiti con i denari dello Stato? Roba da matti. Alcuni collaboratori di Prodi hanno pensato di ricorrere alla Cassa depositi e prestiti per lo scorporo della Telecom e forse anche per statalizzare qualche impresa privata difendendo una non meglio identificata italianitàŠ Se poi la Cassa non ha risorse sufficienti, si può pensare di ricorrere alla nuova grande banca nazionale, Intesa- San Paolo, che, guarda caso, oops! Arriva al momento giusto! e che non a caso Prodi chiama «la banca dello sviluppo». E' chiaro che il sospetto che viene è che il progetto di scorporo non abbia niente a che fare con l'italianità aziendale o la presenza in settori strategici, il progetto serve solo a far affluire danaro alla compagnia che è soffocata dai debiti giacché ha comprato ciò che non poteva permettersi di comprare ed in più l'ha fatto in tempi di tassi crescenti.
Il primo governo Prodi privatizzò Telecom cercando di costruire una public company senza riuscirci. Il governo D'Alema poi, ne favorì l'acquisizione da parte dei "capitani coraggiosi" guidati da Colaninno i quali si indebitarono fino al collo, tanto da meritarsi l'appellativo di "capitali coraggiosi". Poi subentrò il governo Berlusconi che favorì la seconda scalata mettendo al posto di Colaninno, Tronchetti Provera, anche lui costretto a contrarre altri debiti. Per farsi con l'azienda, Tronchetti paga un prezzo altissimo: 4 euro per azione pur di ottenerla e spiega al mercato che occorre incorporare Tim, la società che produce più utili dentro Telecom per ridurre l'indebitamento. Adesso, per le stesse identiche ragioni, è necessario fare il contrario: scorporare Tim e metterla sul mercato, scindere la rete fissa che potrebbe passare di nuovo allo Stato garantendo la concorrenza tra tutti gli operatori.
Insomma, viene da dire: ragazzi, mettetevi d'accordo! Basta con questo Far West! State facendo saltare la credibilità del management e degli azionisti di controllo che fino a ieri hanno puntato su un piano strategico opposto: la sinergia tra telefonia fissa e mobile. Viene da dirlo, però subito dopo ci rendiamo conto che stiamo in Italia, il Paese degli spaghetti western, allora ci rendiamo conto che fa parte del nostro Dna occupare rendite di posizione senza rischiare nella competizione. E' un male cronico che affligge tutta l'economia, è il Far West del capitalismo nostrano, di coloro che sono pronti a tutto e spesso pronti anche al suo contrario. Ma di fronte a tanta confusione non possiamo non paventare questo capitalismo fatto con il capitale dei contribuenti, perché è questo oggi che ci fa temere il domani. E' necessario salvare Telecom così come si è cercato di fare con Alitalia? O prolungheremo soltanto un'inutile sofferenza, un accanimento terapeutico su un malato terminale? Le dimissioni di Tronchetti e di Rovati fa pensare che i manager ed i politici sono i primi ad abbandonare una nave che affonda, e, per dirla con Majakovskij, sono i primi ad abbandonare la nave subito dopo i topi ma prima delle puttane.
TRIESTE 19/09/2006
Walter J. Mendizza
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