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Il Piccolo 23-09-2001

FILOSOFIA
Parla lo studioso tedesco ospite a Trieste delle tre giornate dedicate al tema «Il futuro di Dio»

Ernst Nolte: «La globalizzazione? Ci distruggerà»

«Se difendere la propria identità è espressione di xenofobia ­ dice ­ allora siamo tutti xenofobi»

TRIESTE - Lo studioso del fascismo Ernst Nolte deve la propria notorietà mondiale principalmente all'acceso dibattito giornalistico, teorico, politico che si determinò, nel 1986, intorno al suo «Nazionalsocialismo e Bolscevismo. La guerra civile europea, 1917-1945» in cui egli mette in relazione lo sterminio di classe dei bolscevichi con lo sterminio razziale dei nazisti, interpretando, in ultima analisi, il nazionalsocialismo come sorta di reazione consequenziale al bolscevismo russo. Una tesi che ha incontrato scarso credito in Germania, determinando un clima di diffidenza o quanto meno d'impopolarità attorno al filosofo tedesco, tanto da spingerlo a trovare una nicchia in Italia, dove ha concesso molte interviste e ha frequentato diversi programmi televisivi.

Ernst Nolte è stato, assieme ad André Gluksmann, l'ospite di spicco della prima edizione delle Giornate internazionali del pensiero filosofico. L'abbiamo intervistato.

Dopo la sconfitta dei fondamenti stessi della modernità, cosmopolitismo, universalismo, l'idea stessa di progresso e crescita illimitata, il futuro è tutto da reinventare mentre i fantasmi del passato si pongono come drammatiche nuove-vecchie possibilità.Lei cosa prevede?

«Le realtà del passato in se stesse non sono né pericolose né importanti. Ma divengono un rischio quando, nella loro struttura ideologica reazionaria, accolgono frammenti di modernità. Questa sorta d'inquinamento le rende estremamente potenti. È quanto è successo col Nazionalsocialismo, che ha inglobato elementi di modernità a loro volta poco puri, frammisti a un «reazionarismo» mal inteso. Quanto al futuro, temo che all'orizzonte si profili un grosso rischio: quello di interpretare la sfida dei terroristi come una realtà antica, da combattere con metodi antichi... guerra, incursioni, raid che danneggiano enormemente chi è estraneo al conflitto e fanno aumentare il numero dei terroristi. Il problema è che nel clima di forte tensione emotiva che è venuto a crearsi dopo gli attentati a New York e Washington, una politica «di polizia» è impopolare perché richiede calma e pazienza. Ma Bush dovrebbe mettere a punto un piano di controspionaggio piuttosto che di contrattacco».

Qual è l'antidoto più efficace per combattere l'angoscia del futuro?

«Non esiste un farmaco onnipotente. Ma credo che, tanto per cominciare, sia necessario cercare di ridurre i motivi che hanno spinto i terroristi a fare quello che hanno fatto. Mi rifiuto di credere che siano solo dei criminali. Sono credenti, fanatici, ma il loro fanatismo ha origine da situazioni storiche profonde. I crociati hanno fatto loro quelle terre che gli islamici ritenevano essere il loro territorio. Poi i crociati sono stati scacciati. Oggi la storia si ripete. Israele è considerato un nuovo crociato dai popoli islamici e io non accetto che gli islamici scaccino i nuovi crociati».

Il terrorismo è «solo» l'arma più potente del processo di destabilizzazione o, piuttosto, lo strumento più efficace della lotta per l'affermazione dell'ideologia islamica?

«Gli attentati all'America sono stati accolti con molta simpatia dai popoli islamici, e questo indicherebbe che sono stati accolti dalla popolazione come un'affermazione dell'identità islamica. Ora, finché questi sentimenti di identificazione rimangono isolati a qualche setta, o fazione, non è grave. Ma quando i sentimenti diventano di massa, allora sì che il pericolo diventa veramente grande».

Sarebbe un'esagerazione considerare i comandamenti della globalizzazione come una forma di fondamentalismo occidentale?

«È una concezione molto interessante anche se, normalmente il fondamentalismo è relativo a una religione o un'ideologia. Certo, però, che la globalizzazione rappresenta una sorta di religione da parte degli estremisti liberali, i quali ne fanno un fenomeno assolutamente positivo, rifiutando ogni confronto. In questo senso, questa ideologia che glorifica la globalizzazione e non accetta critiche, sì, può essere vista come un fondamentalismo dell'Occidente».

Torniamo in Europa. Come risponde oggi alle accuse di giustificazionismo che le sono state mosse nel suo Paese?

«Credo che molti giornalisti, oggi, sostengano che, prima di tutto, vanno capite le motivazioni dei terroristi. Ci sono ragioni comprensibili e altre che sfuggono alla comprensione. Tenere un atteggiamento di comprensione critica rispetto certe drammatiche realtà non significa giustificarle. Questo vale anche per Hitler e il nazionalsocialismo: vanno compresi nella misura in cui sono comprensibili. Non è giusto partire rifiutandosi di capire».

L'allarme suscitato da Haider rivela lo stato di massima allerta degli Stati europei rispetto il rischio che il nazismo, o un'imitazione di esso, possa tornare al potere. Ma è un rischio reale?

«Ritengo che gran parte di questi movimenti di forte opposizione al neonazismo siano uno strumento della sinistra radicale che teme di perdere la propria egemonia. Limitare l'immigrazione è una questione di buon senso e non xenofobia. Se la difesa della propria identità è un'espressione di xenofobia, allora siamo tutti xenofobi».

Una vecchia idea del generale de Gualle era quella di un'«Europa delle patrie». Oggi, è ancora giustificata una simile ipotesi?

«Dipende da ciò che vogliamo intendere per "patria". SE rimane un concetto stretto, no. Se invece è un'idea più larga ed estesa, che non esclude rapporti di simpatia con le altre realtà, allora l'idea di un'"Europa della patrie" è oggi più che giustificata. Perché un'Europa centralizzata a Bruxelles non sarebbe un'Europa da amare né da stimare».

Loretta Marsilli