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Il Messaggero Veneto 04-05-2002

I pareri dello scrittore friulano, del giornalista Piero Fortuna e del sociologo Bruno Tellia

Sgorlon: «Il mistero della vita turba tutti»

Nelle risposte sollecitate da Serena Foglia c'è anche quella di Stanislao Nievo, che svolge un lungo ragionamento sulla funzione soprattutto cerebrale della vita cosciente, definisce «di lana caprina» la distinzione tra eutanasia e suicidio assistito, e assegna all'autorità medica la facoltà decisionale. «Il diritto all'eutanasia è un fondamentale diritto dell'uomo, al di fuori di sue determinate scelte ideologiche o religiose che vanno nel caso rispettate quando si è in possesso di normali facoltà mentali», dice Nievo. «La mia opinione sull'eutanasia più che con la morale ha a che fare con l'etica dell'individuo. Nei casi estremi di dolore e di decisione da parte del malato è possibile che venga praticata. Quando poi anche per la morale, in casi specifici, si è in dubbio sulla sua applicazione, questa deve inchinarsi alla decisione etica dell'individuo che sopporta il peso di tale situazione».

«È un argomento del quale ho avuto modo di parlare a lungo con mio fratello Loris, che all'inizio degli anni 80 era stato il presentatore di una proposta di legge contro l'accanimento terapeutico, precisando che non si trattava di eutanasia», dice invece il giornalista Piero Fortuna (la cui opinione, come quelle che seguono, non è contenuta nel libro). «Se questo è un principio ormai sostanzialmente passato nel comune sentire, anche in merito al desiderio di suicidio, sono dell'idea che vada riconosciuto all'individuo il diritto di risolvere la sua vita quando ritiene sia, per lui, il momento giusto». «Credo che la richiesta di essere sollevato dalla pena di vivere, nel caso del malato che soffra dolori insopportabili, debba essere considerata legittima. Ricordo però anche che Loris riteneva indispensabile, per un possibile intervento, l'avallo magistratuale, e, a monte, la richiesta espressa per iscritto e in maniera inequivoca. Anche se può sembrare assurda la burocratizzazione di atti del genere, dei passaggi formali dovrebbero esserci, per evitare abusi».

«A una persona formatasi e cresciuta nel cattolicesimo come me, viene da rispondere che non siamo i padroni della vita e dunque non la possiamo togliere. Ma ciò che è accaduto a Londra, dove si sono pronunciati anche giudici non cattolici, o non credenti, dà da pensare. Cos'è che ci trattiene dall'accordare il diritto alla dolce morte?», si chiede Carlo Sgorlon. «Prima di tutto, credo, la convinzione intima, che ci viene già dalla cultura greca, che la vita va difesa. Che si tratta di un principio che va al di là di noi, e per il quale costituiamo solo dei mezzi».

«Siamo così schiacciati dall'enormità di questo fatto, da considerarlo primario anche quando la vita è fonte solo di dolore e degrado. Poi conta anche la terribilità della materia: non sappiamo dove porre i paletti. Noi stessi siamo diversi da un minuto all'altro. Quando si soffre di dolori atroci (è successo anche a me), si desidera la morte. Ma quando il dolore si attenua, passa anche questo sentire. Non credo che in materia ci sia un giudizio acquisito per sempre: la vita è un work in progress sempre, anche nei momenti più sofferti. È mistero enorme, ed è proprio questo a trattenere credenti e laici: di fronte ai fatti misteriosi siamo tutti turbati e titubanti. Ci fermiamo di fronte agli abissi, in qualche modo», prosegue lo scrittore friulano.

«Ci sono poi altri motivi cospiranti: l'idea che, iniziando con l'introdurre il principio, non si sa dove si può finire. Il diritto al divorzio venne presentato come strumento per casi estremi, ma ha cambiato il costume, è stato un moltiplicatore. Allora votai a favore, oggi non lo rifarei. E ci sono i miracoli, un argomento che vale per chi crede, ma forse anche per altri. Le guarigioni scientificamente inesplicabili esistono: della stessa sclerosi che costituisce l'origine della richiesta di eutanasia nel caso Pretty ci sono stati casi di remissione in extremis. E poi c'è la tentazione, forse più fatalistica che fideistica di "lasciar fare alla natura"».

«Tra la vita e la morte esiste un continuum in cui è impossibile fissare un punto preciso. Questo è il cuore del problema: senza parametri certi, ogni valutazione è soggettiva, e l'ampiezza della discrezionalità può dar luogo all'arbitrio», osserva il sociologo Bruno Tellia. «Si è spesso invocato il concetto di dignità della persona. Ma viene da chiedersi: dignità rispetto a cosa? A schemi validi in questo momento storico, evidentemente. So che il paragone non regge: ma, secondo una visione esasperatamente giovanilistica, oggi chi non si mostra in perfetta forma è out, svuotato da altri valori. Oppure, sempre in base ai modelli in voga, chi non riesce ad aver successo può anche considerarsi senza dignità, considerare la vita indegna di essere vissuta».

«Siamo tutti consapevoli che esistono dei singoli casi disperati in cui ci si può sentire portati ad ammettere l'eutanasia. Ma il principio non lo si definirà mai. Per qualcuno l'essere non autosufficiente o compos sui costituisce un criterio. Ma nei regimi totalitari il dissidente può venir considerato demente. O il demente essere eliminato, per calcolo di eugenetica o di economia», dice ancora Tellia. «En passant, negli ospedali a valutazioni del genere siamo in pratica già arrivati. Anche se non si dice, per certi anziani, interventi che potrebbero portare a migliorare sia qualità che quantità di vita, non vengono eseguiti. Perché c'è un budget da rispettare, e si devono seguire priorità nell'uso delle risorse».

L.S.