Il Messaggero Veneto 11-03-2002
Il vicepresidente dell'Associazione industriali fa il punto sulla fase congiunturale e sulle prospettive dell'economia friulana
«Necessaria anche una politica dell'immigrazione e demografica che faccia crescere la popolazione attiva»
OSOPPO - Dall'incontro con i membri della famiglia Fantoni, cui fa capo il controllo azionario dell'omonimo gruppo industriale, emergono le tipiche caratteristiche del friulano di un tempo (quello ante terremoto, direbbe padre Turoldo): la semplicità dei modi, l'assenza di ogni formalismo, la concezione del lavoro come stile di vita. Giungono per primi la mattina in azienda, precedendo di dieci minuti l'ingresso dei dipendenti. Il presidente cavalier Marco e il figlio Giovanni mettono subito l'interlocutore a proprio agio, mentre l'altro figlio Paolo (entrambi sono consiglieri delegati) li affianca alla fine, per i saluti di tiro, addirittura in maniche di camicia. Quando qualcuno suggerisce al "patriarca" di aggiornare il biglietto da visita, premettendo al nome il "dott." di prammatica (frutto della recente laurea honoris causa), arriva la più disarmante delle risposte: «lo farò con la nuova ristampa, prima devo esaurire la scorta in dotazione».
Se poi si va a sfogliare il volume che raccoglie i lavori del Centro Ricerche Fantoni, tra le righe si scopre l'essenza della filosofia aziendale: «un'impresa diventa una realtà di lungo respiro solo se la sua cultura e la sua etica sono in sintonia con la cultura e i principi etici della società in cui essa opera».
Il Gruppo Fantoni ha chiuso l'esercizio 2001 con un fatturato di 270 milioni di euro, di cui il 47% destinato all'esportazione (in tutti gli Stati del mondo) Dà lavoro a circa 1.300 dipendenti. Produce mobili per ufficio (50 milioni di euro l'anno, tra i primi cinque in Italia), collanti e resine (200 mila tonnellate), pannelli truciolari e in fibra MDF (capacità totale 1,2 milioni di mc. compresi gli stabilimenti di Avellino e Slovenia), pavimenti melaminici e pannelli fonoassorbenti, laminati continui ed infine energia idroelettrica tramite otto centrali, con una produzione di 210 milioni di Kwh/anno, pari al 60% del proprio fabbisogno.
Con Giovanni Fantoni, che nella sua veste di vicepresidente di Assindustria è attento osservatore e acuto interprete della complessa realtà presente, si sviluppa il colloquio sull'attuale momento congiunturale e sulle prospettive dell'economia regionale. Da qualche tempo, pur in presenza di eventi di rilievo (dibattito sui nuovi assetti istituzionali, avvio di sinergie tra le regioni Friuli Venezia Giulia e Veneto, andamento macro economico dell'economia regionale ecc.), i Fantoni sono stati significativamente silenti, anche se certamente non assenti. Come mai? Preferite restare alla finestra in attesa di valutare le soluzioni concrete? Oppure fate sentire la vostra voce "per via diplomatica" ?
Sono già tanti quelli che si ritengono in grado di "pontificare" pubblicamente. Noi preferiamo interloquire utilizzando i canali istituzionali per non generare confusione o malintesi. Se però qualcuno vuole contattarci, siamo ben lieti di esternare il nostro pensiero. La nostra condotta si ispira allo stile dei Pirelli della vecchia generazione, che nella loro riservatezza facevano parlare i fatti. Sull'andamento e sul futuro dell'economia regionale vi sono due scuole di pensiero: secondo alcuni l'attuale rallentamento sarebbe di tipo congiunturale, con previsione di prossima ripresa, al traino degli Usa, già verso la metà dell'anno. Secondo altri saremmo invece al cospetto di un cambiamento epocale che, sulla scia della globalizzazione, impone alle aziende radicali interventi strutturali sia nell'organizzazione produttiva sia nella funzione commerciale.
Quale di queste due ipotesi è più verosimile?
Ambedue le tesi hanno fondamento. Si tratta di due fenomeni che si compenetrano. Da un lato si assiste a una fase di rallentamento della domanda globale che risale a prima del fatidico 11 settembre (vedi andamento delle borse); dall'altro è ineludibile l'esigenza di immaginare il futuro con capacità di previsione, programmazione e innovazione. Ecco allora che, intervenendo con lungimiranza sui fattori di crisi congiunturali o di breve periodo (vale a dire sul prodotto, sul sistema organizzativo e sulla rete commerciale), si sopperisce automaticamente alle deficienze di tipo strutturale. Il mix tra i due tipi d'intervento dev'essere una costante nella vita dell'azienda. Detto in parole povere: non ci si può mai sentire appagati, bisogna costantemente guardare avanti puntando all'espansione. Il processo di delocalizzazione è sempre più diffuso. In loco si riduce la capacità manifatturiera in quanto alcune fasi della filiera (solitamente le prime) si spostano là dove costano meno. Ma ciò non basta per ottenere vantaggi competitivi su scala internazionale. Occorre che pure la restante parte della catena lavorativa (il cosiddetto core business) venga migliorata attraverso interventi di tipo avanzato riguardanti le caratteristiche del prodotto, l'ampliamento delle reti commerciali, la ricerca sulla qualità e così via. Questa seconda necessità pare meno avvertita dagli imprenditori. C'è addirittura chi nega l'esistenza di tali problemi, forse per paura di guardare dentro se stesso e di doverli affrontare con l'indispensabile tempestività.
Condivide questa diagnosi? «Se l'imprenditore pensa che la propria gamma di prodotti o modelli sia definitiva non può pianificare il futuro. Il suo "spirito animale" lo deve orientare verso un continuo miglioramento. L'atteggiamento denunciato può verificarsi in settori dove il peso dei fattori competitivi è molto elevato ed oneroso, ma nessuno può sfuggire alla logica di governare i processi innovativi. Laddove la tecnologia non consente di ridurre i costi, è inevitabile delocalizzare. Questo non è il caso della Fantoni che, essendo un'azienda molto integrata e dotata di tecnologie avanzate, non avverte tale necessità. La fabbrica slovena, da noi acquisita nella fase di privatizzazione in atto in quel Paese, adotta il ciclo completo e rientra pertanto in un'ottica di espansione.
In occasione di un recente convegno lei ebbe a dichiarare che l'evoluzione tecnologica in atto dovrebbe favorire gli aspetti qualitativi dell'impresa più che quelli dimensionali. In questa visione le piccole e medie aziende regionali, che costituiscono il tessuto nevralgico nel nostro sistema di economia diffusa, dovrebbero svolgere un ruolo importante. A quali condizioni?
Il Nordest ha assunto dinamicità in virtù del circolo virtuoso innescato dalle piccole e medie imprese, spesso al servizio (con forme di sinergia collaborativa) di gruppi meglio dimensionati e dediti all'esportazione. Molte di loro però, nella corsa alla crescita, sono state frenate dalla scarsa flessibilità delle strutture contrattuali. Mi riferisco alla loro preoccupazione di non "splafonare" oltre i 15 dipendenti per non incorrere nelle rigidità imposte dalle norme vigenti sul collocamento. Al di là della specifica vertenza sull'articolo 18 della legge 300, pare pertanto indilazionabile una riflessione critica sugli attuali modelli contrattuali. Uno dei tasti sui quali lei si batte con più insistenza riguarda la crescita professionale delle risorse umane. Su chi ricade questo onere? Quale ruolo vi può svolgere l'università? La politica formativa proposta dalla Regione va nella direzione giusta? Gli imprenditori sono sensibili al problema? Come creare sinergie collaborative tra i vari organismi preposti? Negli ultimi tempi la Regione ha compreso la rilevanza del problema. E' opportuno che la sua sensibilità verso le esigenze del mondo imprenditoriale sia ancora più avvertita.
Anche la collaborazione con l'Università è sempre più penetrante. Gli imprenditori da parte loro si mostrano aperti verso il mondo della scuola. Molto validi sono i corsi di formazione Fis coordinati dal Consorzio Friuli Formazione con l'apporto diretto delle aziende in termini economici e nella definizione dei programmi e delle docenze. La Fantoni (oltre 200 assunzioni negli ultimi anni) gestisce corsi di formazione permanente per i suoi dipendenti. Gran parte dei dirigenti "maturano" in azienda. Parlando di forza lavoro non si può non accennare al problema immigrati. Il mio pensiero al riguardo è chiaro e semplice: nel breve periodo i flussi controllati di lavoratori sono inevitabili. Nel medio periodo invece bisognerà sopperire alle carenze esistenti aumentando la percentuale di popolazione attiva (per ampliare la base contributiva) passando dall'attuale 53 al 70%. Nel lungo periodo infine si dovrà pensare a una diversa politica demografica, visto che oggi l'Italia registra gli indici di natalità più bassi del mondo.
Abbondio Bevilacqua