FAUSTO CADELLI: In fila al supermercato ben attenti al numero, però!
Ci vuole grande prudenza nel giudicare la dottrina di una religione, se non si appartiene ad essa. Ad esempio, non ha senso la pretesa di stabilire chi sia "più cristiano" tra i vertici vaticani ed il popolo dei fedeli, tanto più perché, in genere, le gerarchie sono coerenti alle basi. Altra cosa invece è trarre, da certe scelte dottrinali, logiche conseguenze: se la Chiesa, con la Cresima, rende "adulti" i tredicenni, non può considerarli minori in altri contesti, quali il testamento biologico o un'eventuale richiesta d'eutanasia.
Sulla negazione del funerale religioso a Welby non entro nel merito; c'è chi si è spinto a dire che sia stata una ghettizzazione a rovescio, con gli "esclusi" liberi al sole della piazza e gli "altri" autoreclusi dentro. E' un'immagine, d'accordo, ma non deve essere un giudizio: c'è chi ha fatto viaggiare tutta l'umanità, vivendo la propria vita al buio, nel chiuso di sè, prigioniero di angosce, tormenti, paranoie.
Per un momento, anzi, ho pensato che la negazione del funerale potesse essere un segno di coerenza etica. Ma era un'illusione, fugata dalle spiegazioni successive, il cui filo conduttore è questo: la Chiesa condanna la scelta di Welby, non la persona. "Quelli che vogliono l'eutanasia - ha dichiarato alla Radio Vaticana mons. Segalini, vescovo di Palestrina - stanno usando lo stratagemma che hanno usato quando c'era il dibattito sull'aborto: hanno detto che c'erano milioni di aborti clandestini solo perche' non volevano far ragionare la gente, la volevano commuovere e basta."
Ora, anche se Welby ha rifiutato una cura terminale, è certo che appartenesse a "quelli che vogliono l'eutanasia". E' sbalorditiva la freddezza con cui certuni, intervistati dalla Radio Vaticana, parlano delle persone che osano "commuoversi", di chi si prende il lusso di "non ragionare": tutte persone che, evidentemente, hanno il torto di emozionarsi, di guardare con i propri occhi la sofferenza degli altri ed andare ad essi incontro.
Con tutte le proporzioni, ho rivissuto il gelo interiore di chi diceva di aver sparato alla divisa, al simbolo dello Stato, non ad un corpo. Lo ripeto subito, non sto paragonando questo a quello. Ma il funerale era di Welby: di chi se non il suo? Come si può, nell'etica, distinguere il ragionare dalla prassi? L'etica è vita ragionata valida per ciascun individuo, la religione è salvezza (o condanna) del singolo. Una ragione senza realtà concreta è uno zero etico.
La Chiesa abbia il coraggio di condannare Welby, proprio lui e tutti quelli che la pensano come lui. Questa volta la Chiesa ha tirato il sasso ma non ha potuto nascondere la mano; si è reso evidente il distacco tra l'astratto in cui la Chiesa detta le proprie regole su certi temi ed il concreto delle persone, "uccise" nei loro diritti e nella loro dignità da quelle regole. Anche dentro la Chiesa, finalmente, si ascoltano voci dissonanti.
Questa evidenza, nel referendum sulla legge 40, era mancata: benché quella legge neghi in concreto i diritti delle persone con l'astratto delle sue contraddizioni, era difficile che la "gente" vivesse il vissuto di chi, magari, è portatore di una malattia sessualmente trasmissibile ma la legge gli impedisce l'accesso alla PMA; ma la compassione per i morenti e per i morti è altro.
C'è, invero, anche chi dice, come il direttore di Avvenire, che: "pretendere di disporre della propria morte, è un atto contro l'amore di Dio (...)Dio è provvidenza d'amore per ciascuno, e quando si dice che Lui non fa preferenze di persone, si intende dire che è ineffabilmente caritatevole con ciascuno dentro alla propria condizione concreta. Anche con Welby è stato così. Anche Welby doveva aspettare il suo momento".
Non ironizzo su chi, con assoluta certezza, dice come pensa e come agisce Dio. Ma forse, intorno a quel "aspettare il suo momento" un sorriso sarà concesso nell'immaginare ciascuno di noi (e Welby), col numerino del supermercato in mano, in disciplinata attesa del turno, al cospetto di un Dio - supposto infinitamente potente e caritatevole - ma incasinato di fronte alle rimostranze di uno, di pochi soli, che chiedono permesso.
La sfida (l'hybris) dell'uomo moderno è di non attendere più il "momento"? Lo ha mai accettato, peraltro, il "momento"? Esiste poi un "momento", e quindi un anticipo ed un ritardo, oppure c'è un processo? Sottointeso al "momento", non c'è oltre alla convinzione che Dio dà e toglie la vita, anche quella, che l'uomo è di qui e la natura (col "momento") di là? Quanto è artificiosa la distinzione tra artificiale e naturale? La sfida è nell'anticipare o nel ritardare?
Si potrebbe tentare, per una volta, una risposta non individuale, ma media, statistica, osservando che in Italia, ancora all'inizio del novecento, la vita media in Italia era poco più della metà di quella di oggi. Eppure, la natura dell'uomo, biologicamente data, è identica da migliaia di anni. Era più natura quella di ieri, questa di oggi, o quella tra cent'anni?
Certo è banale dirlo, ma il punto problematico di questi ultimi anni è la coscienza di essere parte della natura, il definitivo tramonto dell'antropocentrismo, il mettere da parte la signoria prima biblica poi scientifica dell'uomo sul creato. Cambiano i punti di vista, ma si continua a vedere la natura come esterna all'uomo, ora una preda per i suoi violentatori, un feticcio per i suoi ecologisti, un travestimento di Dio per i suoi catechisti.
L'uomo è natura, (non basta dire che è parte perchè, daccapo, si dovrebbe distinguere tra l'uomo ed il resto). Se è così, anche l'insieme dei prodotti dell'uomo è naturale. Quindi anche i respiratori meccanici non sono innaturali perché artificiali, ma innaturali se pretendono di eccedere la natura dell'uomo rimpiazzando il suo libero interrogarsi sul senso di sé.
Strani scherzi della...natura. Da una parte l'allungamento della vita media mette in crisi i sistemi pensionistici, la concezione del lavoro, la percezione stessa delle fasi della vita. Ma resta pur sempre, ineludibile, il venire dal nulla ed il ritornare al nulla. O non si ha più la libertà, ed in un certo senso la doverosità, di lasciarsi andare alla morte?
Può elevarsi il singolo - negazione della negazione - contro l'hybris scagliata dalla nostra specie a sé medesima nell'ultimo secolo? Si può (o si deve) dire che si è perso, dopo aver tanto vinto? Si può ammettere che il numero del supermercato era già stato chiamato, ora con violenza ora con dolcezza, ma che ci eravamo ostinati a non ascoltarlo? Si può?
29/12/2006 Fausto Cadelli
cadellifausto.cadellifau@tin.it
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