Critica all'anticlericalismo da parte di un non-cristiano.

In queste riflessioni, intendo avanzare qualche opinione sul concetto di anti-clericalismo. A partire, intanto, dal prefisso "anti" che (dal greco) significa "contro". Ma l'opposizione, tolta quella fisicamente violenta, è prima di tutto una "relazione" dialettica che prelude alla sintesi tra gli opposti. Chi, infatti, non coglie l'apertura offerta dall'opposizione e rimane chiuso nella dimensione del "contro" rischia di essere "contro" ... se stesso: o facendo dipendere sé dall'opposto (come nel pacifismo che esiste solo se antiamericanista) o assorbendo in sè caratteristiche proprie dell'opposto, e di solito le peggiori (le misure "liberticide" nella lotta al terrorismo - quali l'utilizzo della tortura - non sono contro ma coerenti alla violenza del terrorismo.) Considero, insomma, l'anticlericalismo come una categoria dialettica: chi lo esprime dovrebbe con ciò rivelare null'altro se non l'intenzione di adottarlo per definire, nell'opposizione con la Chiesa, il modo politicamente corretto di esprimere la propria visione del mondo. Essere "anti" sia, insomma, qualcosa di più che una negazione. Forzando deliberatamente l'etimologia, nell'anticlericalismo "dialettico" l'anti deriva dal latino "ante": ciò che ci è "contro" è ciò che "viene prima", la premessa della sintesi.

Nel titolo mi sono qualificato come non-cristiano. Al di là dei dettagli sul perché, l'essenza del rifiuto sta nel rifiutare l'essenza di Cristo, la sua pretesa umanità. Con la stessa semplicità e naturalezza con cui i credenti credono in essa, io non credo che chi è anche Dio possa dirsi, veramente, uomo. Ma essere non-cristiano non dice alcunché di chi veramente sono (nemmeno del mio rapporto col concetto di Dio): l'insieme di valori che costituisce la mia identità non è affatto data solo da questa negazione. Posso, per questo, dirmi un non-cristiano non anti-cristiano, non solo perché ripudio il laicismo (il clero ed i credenti non esprimono altro che l'esigenza - condivisibile - di darsi una risposta all'angoscia del divenire) ma proprio perché la mia identità non coincide con questa negazione. Non sento affatto il bisogno dialettico del confronto col cristianesimo per definire me stesso, a parte la pura curiosità intellettuale di conoscere le idee altrui.

Ma il confronto dialettico diventa un atto dovuto quando si passa alla politica ed al suo scopo specifico che è quello di convincere del proprio punto di vista quante più persone, soprattutto gli indecisi. La vicenda del referendum sulla legge 40/2004 è didascalica dell'errore di un anticlericalismo chiuso nell'opposizione. Il vero "nemico" del SI non è stata la Chiesa (o il sedicente astensionismo, in realtà un assenteismo incivile) ma l'indifferenza di chi non è stato affatto coinvolto dal problema. E questi indifferenti, se mai si sono occupati per un momento del tema, che cosa hanno ascoltato? Spesso, un SI, intrappolato in dotte questioni filosofiche e teologiche, lanciato contro il clericalismo strabordante di quei giorni. La conclusione è a tutti nota.

La stessa considerazione che la Chiesa gode di enormi vantaggi economici è vera ma non convincente perché la Chiesa ottiene ed interviene tanto quanto farebbe qualsiasi altra istituzione dotata di forza e potere analoghi. Anzi, nelle problematiche attinenti la coscienza, la Chiesa sarebbe comunque interpellata e sarebbe ancora più forte se si presentasse "povera". Piuttosto, la questione economica deve essere affrontata sul piano dell'uguaglianza nel contesto delle fiscalità pubblica: perché le confessioni religiose ottengono forzosamente l'otto per mille (con la distribuzione delle quote inoptate) e le ONLUS o gli enti di cultura e ricerca solo il cinque per mille ma solo su base volontaria? Perché non estendere l'otto per mille a tutti i soggetti menzionati sottoponendoli ad obblighi precisi di trasparenza nella rendicontazione delle somme ricevute? Non si tratta, quindi, di abrogare un privilegio, ma di "relativizzarlo" nel contesto più opportuno, concentrando l'anticlericalismo (dialettico) verso il merito con cui la Chiesa esercita il suo ruolo.

Il ruolo della Chiesa è di autentica guida per una non piccola schiera di credenti "militanti" e di importante riferimento per una moltitudine più vasta. La Chiesa svolge un mandato di rappresentanza anche se rifiuta di costituirsi in partito politico per mantenere una certa aura di universalità. Una parte del fronte "anticlericale" accusa i vertici vaticani di burocratismo, di aver perso il senso originario di Chiesa come "ecclesia", di aver addirittura esautorato i credenti della loro fede, sequestrata in una gabbia dogmatica e violenta. In apparenza, questa critica sembra poco "anticlericale" perché, con la sua denuncia di tradimento della fede autentica, appare muoversi "dall'interno" della Chiesa stessa: ma in realtà, potrebbe ribattere chi la avanza, questa tesi è "anticlericale" per eccellenza proprio perché ecclesia non equivale a gerarchia ecclesiastica. Tuttavia, e venendo al sodo, questa critica mi sembra grossolana, anche se contiene elementi di verità. Intanto, mi sembra ovvio che la Chiesa, in quanto gerarchia, appaia per il tramite dei vertici (come i partiti politici).

Ma, e soprattutto: il vertice di una gerarchia si regge senza la base? Il clericalismo è proprio solo dei vertici? Posso personalmente attestare, ad esempio, l'invadenza della parrocchia che si rivolge agli adulti per il tramite dei bambini, insinuando in essi il dubbio che i genitori sono "cattivi" se non partecipano assiduamente agli incontri della parrocchia come i genitori "bravi". Se fosse vero il tradimento del Vaticano sarebbe lecito attendersi una rivolta da parte del "basso" clero o dei credenti stessi. Con la carenza di vocazioni di oggi, la Chiesa potrebbe permettersi una larga contestazione? Ma nulla di ciò si vede, a parte qualche scempiaggine isolata (Milingo, preti arcobaleno della "PACE" ) né nel clero né nei credenti. Certo, accade in Italia che i credenti italiani, da bravi italiani, predichino in un modo e poi razzolino in un altro: ma il fatto che predichino in quel modo è comunque un atto politico rilevante. Tutti questi credenti sono laici: alcuni sono clericali in senso figurato (più clericali dei vescovi, più realisti del re), gli altri vedono nella Chiesa una interlocutrice importante nella costruzione della propria visione del mondo. Questi ultimi possono anche pervenire a conclusioni (che si traducono in voti) diverse da quelle "ufficiali" ma solo alla fine di un ragionamento autonomo il quale non viene certo facilitato qualificando i vertici vaticani come traditori della fede, col rischio che questi credenti "laici laici" serrino per reazione le fila e si comportino come i "laici clericali".

Detto tutto questo rimane l'ultimo "must" dell'anticlericalismo "classico", quello principale. Si contesta alla Chiesa che la sua ingerenza viola le opinioni e i (richiesti) nuovi diritti altrui inutilmente, perché l'introduzione di questi diritti (eutanasia, aborto, PMA libera, ricerca staminali embrionali, PACS) non impedirebbe a chi dissente (cattolici in primis) di regolarsi diversamente. L'assunto è che in uno Stato cosiddetto "laico", le culture devono e possono coesistere tra loro, come tutti gli dei abitavano il Pantheon. Anche tale tesi, è, secondo me, piuttosto grossolana e non solo perché esprime un ideale. La coesistenza delle culture è un obiettivo così importante da realizzare da non poter essere confuso o appiattito su quello della compresenza delle stesse in un territorio. Prendiamo il caso dell'infibulazione, pratica condannata dalla legge italiana (legge n.7/2006), nel presupposto che tale violenza prima ancora che contro il corpo sia contro la volontà della donna (tutte minorenni, peraltro). Chiamiamolo pure illuminismo, Umanità in senso astratto, ma il valore della libertà personale è ben più importante del rispetto dell'integrità delle culture insistenti su un territorio. Affinché le culture (o le comunità) coesistano ci deve essere almeno un termine in comune accettato da tutti. Un insieme di cittadini è tanto più forte quanto più si avvicina ad essere una totalità. Naturalmente, non rispetto a tutto, ci mancherebbe, viceversa questo insieme non sarebbe uno Stato ma una tribù arretrata perché frenata dalla lentezza nell'accettazione dei cambiamenti. Tuttavia, il senso della totalità, il senso dell'unità dell'insieme dei cittadini deve costituirsi almeno intorno ad alcuni valori fondamentali. La totalità, l'essere un'unità, essere una, si crea se tutti i cittadini hanno almeno un elemento unificatore. Gli elementi della totalità, pur tutti diversi tra loro, devono avere un elemento per il quale sono uguali: l'Identità nel diverso.

L' insieme dei cittadini (uno dei tre elementi costitutivi dello Stato, con la sovranità ed il territorio) è unito, in primo luogo, dal rispetto della legge. Formalmente, è senza dubbio così: la legge è uguale per tutti e tutti sono uguali nella legge. Ma ancora non basta: il pieno rispetto del formalismo parlamentare garantisce solo circa la legittimità della legge non la sua giustizia (meglio, costituzionalità). Perché uno Stato sia veramente Stato, cioè una totalità dei cittadini, intorno ad alcuni valori fondamentali non basta che ciascuna visione del mondo sia compresente alle altre ed a ciascuna sia garantito il diritto di esprimerla e di esercitarla, ma che ciascuna visione del mondo conviva sulla base dell'Identità nel diverso accettata da tutti quale valore più alto. L'anticlericalismo (dialettico) è un obbligo politico per la definizione dell'Identità del diverso dei cittadini, ovvero per la costruzione dello Stato. La legge deve cogliere il motivo dell'Identità: la coesistenza delle opinioni non è, a mio parere, una vera laicità. Assicurare con la legge l'esercizio di un diritto e consentire a chi dissente di regolarsi diversamente è un dovere, solo un frammento, per quanto importante, di democrazia (in Italia siamo ben distanti anche da questo!). Infatti, in uno Stato è lecito attendersi, per il dovere civico della solidarietà, che il cittadino che veda compiersi un'offesa presti soccorso. Ma se, in nome del relativismo culturale, non si deve intervenire, quante cose si finirà presto o tardi per accettare come "normali" soltanto perché non ci toccano personalmente?

Fin qui, dunque, respingendo l'anticlericalismo che tende a virare nel laicismo, ho inteso dare il più ampio spazio al clericalismo, motivandolo con l'esigenza prioritaria di istituire un dibattito politico che rispetti il contraddittorio. Ma ciò non vuole dire affatto che il dialogo debba essere morbido. Perché ci sono due presupposti da stabilire perché il dialogo si sviluppi, e non sono così scontati: il primo, la condivisione del concetto di democrazia da parte della Chiesa; il secondo, il metodo basato sulla Ragione, non a parole ma nei fatti.

Partiamo dal primo. Cardine della democrazia è che il popolo, titolare della sovranità, sia costituito da cittadini tutti uguali tra di loro. Ora, anche per la Chiesa tutti gli uomini sono uguali (e fin qui non c'è contraddizione) ma rispetto a Dio: questa è, per la Chiesa, l'unica vera uguaglianza che conta tra gli uomini. Il principio di uguaglianza della Costituzione (art.3) è costruito sul toglimento delle diversità (sesso,razza,lingua,religione,opinioni politiche...). L'uguaglianza sembra una tautologia: siamo uguali tra noi perché ignoriamo le differenze, siamo uguali in quanto non ci consideriamo diversi per tutto ciò che ci rende diversi. Tolte tutte le diversità, alla fine dello strip-tease resta l' "Uomo" (non si è mai visto passeggiare per strada l'Uomo con la U maiuscola, ironizzavano i filosofi anti-illuministi...). Ma quello che qui conta è che il concetto di uguaglianza si costruisce qui, tra noi, rispetto a noi stessi. Ciò che ci rende tutti uguali, nella nostra Costituzione, è un'astrazione intellettuale ma immanente; per la Chiesa è un'astrazione intellettuale ma trascendente, perché il riferimento è Dio. Allora, il cristianesimo, nella sua essenza, è conciliabile con la democrazia? La risposta è no, quando, ad esempio, nella Chiesa prevale l'idea che l'embrione sia identico alla madre (perché sia l'embrione che la madre sono uguali davanti all'Infinità di Dio, concetto questo con il quale non si può non concordare: tutto le cose sono nulla rispetto all'infinito; nel loro essere nulla rispetto all'Infinito tutte le cose sono uguali tra loro, ma non significa che tutte le cose siano uguali rispetto a loro stesse). La risposta è si se si riflettesse sul precetto evangelico "date a Cesare quel che è di Cesare ed a Dio quel che è di Dio". In queste parole, è evidente la separazione degli ambiti (e non la commistione, come accade in Italia): da una parte, l'ordine voluto dagli uomini dotati di ragione per proteggere tutti,anche i credenti, dall'arbitrio altrui; dall'altra parte, la ricerca dentro di sé, con la ragione, della verità.

Siamo così al secondo presupposto, la Ragione. La ragione è il metodo del confronto tra i due ambiti: Cesare, l'ordine razionale creato dall'uomo, e Dio, l'ordine razionale che, per i credenti, va oltre. Almeno in linea di principio e d'intenti, il discorso di Ratisbona del Pontefice (quello della gaffe su Maometto) è molto chiaro: Dio è logos, ragione, e su ragione deve basarsi il dialogo. Andare contro ragione equivale ad essere non solo contro l'uomo ma contro Dio. Non entro nel merito se Dio sia effettivamente logos, ragione (su questo ho le mie opinioni): questo lo dice il Papa. Ma mi va benissimo di adottarlo come metodo, perché il rispetto della ragione come metodo, nei fatti e non a parole, assicura anche la tenuta della democrazia. Torniamo alla legge 40. Credo fosse errato, da parte del fronte del SI al referendum, sostenere la liceità della scelta tra gli embrioni da impiantare (contro la legge che ne prevede l'impianto di tutti) sulla base del fatto che nella fecondazione naturale per ogni gravidanza che si completa ci sono in media quattro aborti spontanei. E' evidente che questo rapporto di un quinto, nella fecondazione naturale, è un risultato statistico a posteriori, ricavato dopo che ogni embrione ha avuto la possibilità di svilupparsi. Tutt'altra cosa, nella PMA, è scegliere un embrione su tre,quattro, cinque già esistenti: la percentuale è identica, ma la scelta è a priori: e solo un embrione avrà la possibilità di diventare persona. Dal punto di vista logico ed etico c'è un abisso di differenza.

Ma dalla parte della Chiesa si è fatto di peggio. Prendiamo concetti quali: vita umana, uomo, persona. La Chiesa li utilizza come sinonimi! Ma ciò è manifestamente contro ragione, cioè contro l'uomo e contro Dio (stando a Ratzinger). Vita umana qualifica la specie umana rispetto alla altre forme di vita; uomo (a parte che come sinonimo di individuo) è ciò che si presenta alla riflessione di ciascuno intorno al senso di sé e dei propri simili, al fine specifico di cogliere l'essenza che costituisce l'Identità nel diverso di tutti (in quanto uomini, non cittadini); persona è l'individuo dotato di capacità giuridica che si acquista con la nascita e termina con la morte. La Chiesa ritiene che davanti a Dio l'embrione sia identico ad una persona sulla base della supposizione che in Dio, infinitamente potente, l'uomo-in-potenza (embrione) e l'uomo-in-atto (individuo e persona) coincidano. In questa tesi, resta del tutto imperscrutabile perché, nella fecondazione naturale, taluni embrioni si sviluppino ed altri no, perché cioè Dio non consenta ad alcuni uomini-in-potenza di diventare uomini-in-atto guadagnandosi nella vita terrena la vita eterna presso di Lui. Questa clamorosa "ingiustizia" (perché io, individuo-uomo-persona, sono nato ed un embrione, "uomo-in-potenza", Dio non lo fa nascere: ingiustizia individuata già da Anassimandro nel riferirsi al fatto che la produzione dei singoli enti, come separazione dall'unità del Tutto, è "ingiustizia", prevaricazione di quell'ente su un altro, prevaricazione che verrà poi punita da un'altra prevaricazione, una nuova nascita...) , questa clamorosa "ingiustizia" - dicevo - affaccia il dubbio che Dio sia arbitrio, pura volontà di se stesso, e non sia affatto logos, ragione. E' facile notare la contraddizione di ciò con l'assunto della "lezione" di Ratisbona: nella filosofia greca il logos - in quanto verità - non è il capriccio degli dei del mito né l'oggetto di un annuncio, ma è uno svelamento che s'impone all'uomo, o almeno a quegli uomini che si adoperano per intravvederlo.

Ma, al di là di questi grovigli, è rispetto al precetto evangelico già citato ("date a Cesare..." ) che la Chiesa non può ignorare, deliberatamente, la differenza che sussiste tra chi è persona (e se è persona è anche vita umana ed uomo) e chi non lo è. Cristo non ha affatto detto che Cesare è abolito, ma ha voluto parlare d'altro. Ancora, è banale parlare di ragione (sempre a Ratisbona) che illumina il senso della vita e dire che la scienza non risponde a queste domande (la scienza moderna, cioè da Galileo in avanti, nasce proprio perché rinuncia ad essere una risposta sul Tutto ma si propone di raggiungere verità dimostrabile sulle singole parti del Tutto!). Ma tuttavia la scienza è ragione: si può escluderla relegandola (con la tecnica) solo a motore del progresso materiale dell'umanità? Se si pretende di dire quale sia il Senso del Tutto (e la fede è questa pretesa) non si può non dire Come il Tutto funziona. Per questo, Chiesa e Scienza sono entrate in conflitto. Al tempo di Galileo la Chiesa era violenta (non più del resto della società), ma era consapevole che se si conosce il Perché non ci si può esimere dal Come: in ciò fede e filosofia sono sempre state molto vicine perché anche per la filosofia greca il Principio unificatore del Tutto è anche la causa efficiente del tutto, il Come del Tutto, la Forza che lo produce. Ma la scienza moderna, senza pretesa di dire il perché ultimo delle cose, ha mostrato che il Come dimostrato delle cose era manifestamente diverso dal Come e quindi dal Perché della Chiesa. Lo choc della Chiesa, ancora più acuto dopo Darwin, perdura tuttora e lo si coglie nell'irragionevolezza di taluni passaggi con cui esercita il suo (lecito) clericalismo. La Chiesa farà, presto o tardi, i conti con quattro secoli di scienza, con quattro secoli di logos, con - permettetemi - quattro secoli di Dio? Oppure vorrà continuare a presumere di detenere una sempre più angusta esclusiva sul Perché, falsificata continuamente dal Come, da spartire con la sua fidata "ancella" (la filosofia) rivalutata strumentalmente a Ratisbona per assoldarla nell'assoggettamento della scienza?

Tra tutte le (piccole?) verità sul Come fornite dalla scienza che la Chiesa contrasta, sottolineo quel neo-creazionismo (altri lo abbelliscono chiamandolo progetto intelligente...) che tante volte fa maldestramente capolino nei discorsi del Papa (anche nel tentativo, veramente incredibile, di far passare il diritto naturale come diritto creato da Dio perché Dio crea la natura, quando tutti sanno che il concetto di diritto naturale, nel senso proprio e moderno, nasce con Grozio che ha sancito la "cacciata" di Dio dallo Stato). Le tesi del neo-creazionismo sono moralmente terribili e (per nulla paradossalmente) molto simili al materialismo tanto aborrito dalla Chiesa. Anche perché il progetto intelligente è un artificio retorico. Viceversa, il ruolo di Dio sarebbe quello di preordinare la struttura della materia che poi si evolve autonomamente da Dio stesso ed allora l'uomo, ogni singolo uomo, è totalmente libero da Dio (perché non è creato da Dio). Ma se l'uomo (ciascun uomo) è creazione di Dio, nel momento in cui si accentua il fatto della creazione (in questo essere l'uomo un fatto c'è il legame, per nulla paradossale, col materialismo) allora l'uomo è "grande come Dio e Dio è piccolo come lui". Ciascun uomo è cioè un progetto particolare di Dio all'interno del grande Progetto universale. Come giustificare allora il male (talora assoluto) di cui ciascuno di noi può essere il portatore se non attribuendolo a Dio stesso?

Come, viceversa, frenare il bene quando, agli occhi della ragione, si presenta nelle forme mistiche o fanatiche, se ciascuno di noi è una pedina alla quale Dio ha comandato di agire? L'uomo non avverte più il limite degli altri perché è rappresentante dell'Assoluto che lo ha creato. Nel "materialismo" di Hobbes, gli individui si scontrano l'uno con l'altro così come, nella leggi necessarie della dinamica, i corpi si attraggono, urtano, respingono con forze uguali e contrarie. Ma, per Hobbes, gli uomini presto comprendono di non poter sostenere la lotta per la vita all'infinito e pervengono, con il patto sociale, allo Stato. Non importa che lo Stato sia assoluto, o che il patto sia un'astrazione (contro la tesi aristotelica della socialità dell'uomo per natura): importa che il conflitto trova, nello Stato, una composizione. Ma l'uomo singolarmente creato da Dio non si arresta di fronte agli altri uomini. Ovviamente, non voglio neppure per un momento paragonare gli attentatori "kamikaze" e gli "embrioni kamikaze" (quelli che devono essere impiantati a tutti i costi contro la volontà della madre). Ma c'è, tra le due prospettive, una somiglianza: la riduzione dell'uomo a Strumento in nome di Dio. Anzi, c'è un'altra somiglianza: il rispetto dell'Identità del diverso perché tutti gli uomini sono identici in quanto Strumento: Strumento la vittima, Strumento il carnefice. Precisando che, in questo ragionamento, l'embrione è uomo solo per la Chiesa.

Non è questo il luogo per riprendere o trattare tutti i temi (eutanasia, PMA, PACS) in cui si potrebbe dimostrare l'adozione di leggi che soddisfano l'esigenza di rispettare l'Identità del diverso nello Stato. In questa direzione, ben venga il clericalismo se è inteso come esercizio della Parola (nel rispetto del contraddittorio). Questo è, secondo me, il senso ultimo del "date a Cesare...": Cristo ha esercitato l'arte della Parola, non quella del Sinedrio (che oggi chiamiamo Parlamento o Consiglio nazionale di bioetica...). Nella grande battaglia del dialogo, nell'opposizione dialettica che prelude alla sintesi, la sfida di cambiare gli altri comporta il rischio di essere cambiati dagli altri. Non si cambia, né noi né gli altri, se, reciprocamente, ciascuno non riconosce di essere portatore solo di un segmento di verità, intesa come coerenza logica e razionale, delle proprie ragionevoli certezze.


19/10/2006 Fausto Cadelli