IL MIO NO AL REFERENDUM CONFERMATIVO DEL 25 E 26 GIUGNO.


Tra i molti buoni motivi per votare NO al referendum confermativo del 25 e 26 giugno, il primo sta nel respingere un metodo che ha portato a votare una riforma così ampia a maggioranza non qualificata ponendo, come dirò subito, sotto ricatto i cittadini. Anche la riforma del Titolo V del 2001 era stata approvata a maggioranza: ma in quel caso l'interpello ai cittadini aveva un senso perché il voto era "limitato" ad una scelta su un singolo tema: il "federalismo". E' vero che anche il voto politico è sempre una sintesi e l'elettore di un partito può condividerne solo una parte del programma.

Ma la Costituzione è un'altra cosa. Le modifiche dovrebbero essere operate con parsimonia, senza disperdere il lavoro. Modificare più parti della Costituzione con un'unica legge costituzionale, obbliga oggi i cittadini a votare con un SI o un NO secco, senza la possibilità di una indicazione analitica: eventuali spunti positivi rischiano così di essere posti nel nulla.

Qualora vincesse il NO, le cui ragioni sono ampiamente fondate, credo che subito il Parlamento dovrebbe adottare la parte del programma dell'Unione che riguarda i referendum: l'abbassamento del quorum in quello abrogativo e lo svolgimento per punti di quello confermativo.

Bicameralismo perfetto e riduzione dei deputati.

Il bicameralismo costituisce una caratteristica (o un'anomalia) tutta italiana e non è irragionevole superarlo. L'intenzione di ridurre i tempi dell'iter parlamentare senza perdere i vantaggi della doppia lettura non è cattiva. La legge di riforma propone un tentativo di superamento con la cosiddetta "piccola Camera", una commissione di 30 deputati e 30 senatori incaricata di elaborare un testo definitivo qualora la legge non fosse stata approvata nello stesso testo dalle due Camere. (art. 70, c.3., secondo e terzo periodo riformato). Ma questa scopo (al di là del fatto che la soluzione prospettata fosse idonea) non è il principale motivo che spinge verso il superamento del bicameralismo. L'idea di fondo è della riforma è di specializzare le camere, affidando al Senato il compito di rappresentare le Regioni. E' qui che la riforma fallisce, come dirò nel punto successivo, nel modo in cui si disegna l'assetto del "Senato federale" e nella cervellotica ripartizione delle competenze tra i due rami del Parlamento. Il temperamento del bicameralismo (con la "piccola camera") affonda, purtroppo, con il Senato "federale": è un esempio di spunto positivo che sarà caducato dal NO.

La riduzione del numero dei parlamentari (da 950 a 773 con entrata in vigore prevista per il 2016) è molto "popolare" per l'implicita riduzione dei costi della politica. Anche qui, dato che nessuno dice che la riduzione degli eletti sia incompatibile con la quantità del lavoro da svolgere, si deve supporre che l'intenzione del riformatore fosse corretta. Ma come interagisce questa norma col sistema elettorale? Se la legge elettorale è proporzionale è ovvio (a parte il premio di maggioranza) che ciascun collegio debba poter disporre di un numero non troppo piccolo di deputati da assegnare se si vuole che ci sia una rappresentazione quanto più proporzionale dei partiti in Parlamento. Ma se il numero di deputati deve calare, o si riducono i deputati per ogni collegio con il rischio dell'accaparramento degli eletti da parte delle due ­tre forze di maggioranza relativa (una sorta di maggioritario spurio) o, nel caso si allargassero i collegi, il rischio è di aprire un divario ancora maggiore dell'attuale tra gli eletti ed il territorio: gli elettori avrebbero ancora minori possibilità di oggi di conoscere i candidati e gli eletti.

Voto NO perché prima si deve decidere per una legge elettorale maggioritaria secca: solo con due candidati che si fronteggiano direttamente ci sarebbe, sui mezzi d'informazione locale, la possibilità per gli elettori di informarsi e per i candidati di presentarsi. Gli spazi giornalistici acquisterebbero profondità e qualità, al posto dell'attuale spezzettamento di candidati ridotti a foto, didascalie, banalità. Anche in questo caso il NO è inevitabile, ma un possibile spunto positivo viene a cadere.

Il Titolo V.

La riforma del Titolo V ha lasciato, nel merito, alquanto a desiderare. La suddivisione delle competenze legislative tra Stato e Regioni "per materie" si è rivelata in concreto assai problematica da attuare perché molte tra esse sono "a scavalco". Si è instaurato così un contenzioso imponente davanti alla Corte Costituzionale la quale, tra i limiti a carico della potestà legislativa regionale, ha sostanzialmente riconosciuto di poter ancora ricavare il principio dell'interesse della Nazione (nominalmente abolito nel 2001). Non è possibile, per ragioni di spazio, operare una disamina completa delle modifiche proposte dalla riforma al Titolo V.

Il problema principale è che questa riforma accentua, anziché attenuare, i difetti del Titolo V. Non si può continuare a trattare la funzione legislativa come un cesto di ciliegie da dividere tra due bambini golosi e litigiosi: lo Stato e le Regioni. E' necessario dire, secondo me, che l'Italia non è gli Stati Uniti d'America e che non ha nessun senso, pomposamente, continuare a parlare di "federalismo" pretendendo di scavare solchi nell'ordinamento giuridico il Veneto dal Friuli Venia Giulia.

Le differenze locali ci sono e le specificità da difendere pure, ma per questo basta ed avanza la potestà legislativa concorrente o quella esclusiva in alcune materie di dettaglio. E più di tutto occorre definire i principi per conferire agli Enti locali una limitata autonomia nell'istituzione di tributi locali propri.

Nello specifico, isolo solo un punto. L'attuale riforma, cedendo all'immanenza della Lega, fa un brutto (ma relativo) passo avanti verso la devolution: tra le materie devolute alle Regioni ci sarebbero "organizzazione scolastica e definizione della parte dei programmi scolastici e formativo di interesse specifico della Regione; assistenza ed organizzazione sanitaria; la polizia amministrativa regionale e locale". Poi, incoerentemente ed inutilmente vista la giurisprudenza della Consulta, reintroduce il limite dell'interesse nazionale abolito nel 2001. Il rischio da evitare assolutamente è che tale attribuzione di materie alle regioni crei disomogeneità, se non addirittura lesioni, nel godimento di diritti civili e prestazioni sociali che, per il principio di eguaglianza, devono essere garantiti in modo uniforme in tutto il territorio nazionale.

Ad esempio, conoscendo "le mascherine" ( tradotto: le Regioni), è veramente inquietante consentire che sulle rovine della scuola, flagellata da anni di piaghe bibliche, sia sparso anche il sale sciagurato dei "Licurghi" regionaliŠ. Si può diventare cittadini degli Stati Uniti d'Europa essendo educati in una scuola trasformata in Pro Loco? O scaricando su di essa competenze di formazione di cui devono farsi carico i datori di lavoro, le associazioni o gli ordini professionali, e via elencando. E' vero che in concreto il rischio che si scavino solchi tra le Regioni potrebbe essere ridimensionato dalla Corte costituzionale visto che le tre materie attribuite incrociano altre competenze esclusive dello Stato, e la Consulta, come detto, mostra giustamente di preferire l'unità della legislazione in talune materie. Insomma, un autentico pasticcio ed il NO mi sembra scontato. L'impressione è che, al pari della riduzione dei deputati che scatta nel 2016, la "devolution" sia stata tratteggiata unicamente dal punto di vista simbolico, ad uso e consumo elettorale: prima si attribuiscono nuove competenze alle Regioni per poi frenarle con il ripristino dell'interesse nazionale, ben sapendo che il Governo impugnerà sistematicamente le leggi regionali trovando nella Consulta un sicuro freno alle tendenze devolutive...

Il Senato federale della Repubblica e la formazione delle leggi.

Una grande "novità" della riforma è la trasformazione del Senato in "Senato federale della Repubblica". Tale camera non dà più la fiducia al governo, e viene eletto su base regionale integrato da delegati nominati dalle Regioni e dagli Enti locali (senza diritto di voto). L'idea è quella di rappresentare meglio le Regioni e di "spartire" l'iter di formazione delle leggi tra la Camera dei deputati (la vera camera politica) ed il Senato federale. Ci sarebbero leggi a prevalenza dell'una o dell'altra Camera: ad esempio, una legge a prevalenza Senato può nascere solo al Senato, passa alla Camera che può proporre modifiche sulle quali il Senato decide in via definitiva. Naturalmente, vale anche il processo inverso. Già si intuisce che i litigi ed i dubbi sono dietro l'angolo: se prima si litigava davanti alla Consulta dopo la riforma si finirebbe per litigare in Parlamento per "acchiappare" la competenza. Tutto questo meccanismo è descritto nella proposta del nuovo articolo 70.

Basti dire in proposito, per dire NO, che il precedente articolo 70 della Costituzione era lungo due righe, quello nuovo dovrebbe contarne ottantanove! Non bastasse questo, si deve dire che il compito del Senato dovrebbe essere quello di dettare i cosiddetti "principi fondamentali" sulle materie in cui le Regioni hanno competenza concorrente. Un'autentica tautologia: se fosse vero che il Senato è regionale avremmo che le Regioni fissano a se stesse i principi fondamentali! Il fatto è che non è così: anche adesso il Senato è eletto a base regionale ed i senatori (come i deputati) cercano di portare a casa con leggi, leggine, commi, commini i risultati ad hoc per il proprio orticello. Il mio NO insomma è grande come una casa, anche per solidarietà agli studenti che dovrebbero studiare il presunto nuovo articolo 70 con lo stesso spirito con cui si leggono quel genere di fogli illustrativi di apparecchiature elettroniche scritti in italiano da un coreano residente da tre mesi in Italia .

Anche in questo caso, tuttavia, questa idea potrebbe essere ripresa più avanti. La mia opinione è che il Senato non sia più "votato" ma composto da rappresentanti nominati dalle Regioni e dagli Enti locali (in questo modo sarebbe veramente rappresentativo delle loro istanze) . Tale Senato potrebbe avere in effetti il compito di elaborare i progetti di "legge cornice" ma sui quali la Camera dei deputati dovrebbe decidere in via definitiva: nel caso la Camera non intervenga il progetto di legge diventerebbe legge (una sorta di silenzio assenso). Credo, infatti, che le Regioni abbiano, rispetto allo Stato, più o meno le stesse esigenze e che non ci sia miglior limite di una delega che quello richiesto dal delegato stesso.

Il Governo e lo scioglimento della Camera.

Mi rendo conto che a questo punto della lettura, che ho cercato di rendere godibile con qualche frizzo, più che votare NO è probabile rimanere a casa con una cefalea a grappolo e trentanove di febbre. Tuttavia, una cosa sul Governo. Dire in Costituzione, come fa la riforma, che il PdR nomina il vincitore delle elezioni mi sembra decisamente assurdo. La nostra Costituzione (che si limita a dire che il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri) garantisce già, per effetto della legge elettorale, che il leader della coalizione vincente sia nominato Primo Ministro. Scriverlo in Costituzione è del tutto inutile. Così come appare inutile costituzionalizzare altri passaggi (morte, impedimento permanente del Primo Ministro): l'attuale prassi costituzionale di gestione delle crisi è perfettamente idonea a garantire continuità in questi casi eccezionali, anche nell'attuale contesto simil-maggioritario.

Ci si accapiglia molto poi sul potere di scioglimento della Camera che passa al Primo Ministro salvo l'istituto della sfiducia costruttiva (cioè l'approvazione di una mozione con cui la maggioranza dichiara di voler continuare a governare indicando un nuovo Primo Ministro). Mi sembra un falso problema: abbiamo già visto, nell'ultima legislatura, la genesi della crisi di governo ed il Berlusconi bis. Nel caso in cui ci fosse stato un vero voto di sfiducia, e non un mero rimpasto, è evidente che non ci sarebbe più stata alcuna maggioranza (lo stesso vale per lo schieramento del centrosinistra). Già oggi, nel caso di sfiducia, appare evidente che si debba tornare a votare, senza sfiducia costruttiva. Lo scioglimento della Camera "all'inglese", nella convinzione di poter ottenere un importante successo alle elezioni, è del tutto illogico tenuto conto che alla Camera c'è già il premio di maggioranza. Da tutto questo già ci sono molti elementi per un grosso NO. Ma ne vorrei aggiungere un altro. Quello che trovo veramente ridicolo, nella riforma, è che il governo dovrebbe ottenere il voto di fiducia sul "programma", per poi presentare annualmente lo stato di attuazione del programma stesso.

Mi spiace, ma non sono d'accordo. Il compito del governo è quello di dirigere la politica generale e mantenere l'unità di indirizzo politico ed amministrativo. Fatta 100 l'attività di qualsiasi governo si può dire che il 90 sia quello di applicare le leggi già in essere. Il "programma" è il momento in cui, a partire dalle primarie, si specifica l'indirizzo che verrà seguito, ed anche evidentemente alcuni punti specifici da realizzare. Naturalmente, è ovvio che l'elettorato si attende che il Governo mantenga la parola e così deve essere. Ma tale momento è tutto politico e deve restare "fuori" dalla Costituzione. Se la realtà da affrontare muta (nulla di meno strano, nella società di oggi) il Governo ha il dovere di modificare il dettaglio del programma, fermi i principi che ispirano la coalizione. Se cadono le Twin Towers, che facciamo, si sta fermi perché non c'è scritto nel programma? Pensiamo al finale avvelenato delle ultime elezioni: costituzionalizzare il "programma" significa costituzionalizzare le lobbies, spaccare il paese (chi si sentirà garantito da un governo il cui compito fiduciario è soltanto quello di fare i fatti propri), banalizzare il Parlamento ridotto ad un mero compito di attuazione. Che bisogno c'è poi di una fiducia da parte della maggioranza che è stata eletta su quel programma? Insomma, voto NO.

L'abrogazione del comma 3 dell'art. 138.

Non mi sembra il caso di affrontare il problema del Presidente della Repubblica: la riforma riduce i poteri nella stessa misura in cui estende quelli del Primo Ministro. Dire NO alla riforma del Governo significa dire No alla riduzione dei poteri del PdR. Vorrei invece brevemente trattare la previsione dell'abrogazione del comma 3 dell'art. 138: le riforme costituzionali potrebbero essere soggette a referendum anche se approvate con la maggioranza dei due terzi. Oggi, ciò non è possibile.

Taluni dicono che questa previsione è negativa perchè disincentiva la ricerca di larghe intese. Non sono d'accordo. In primo luogo queste ultime due riforme costituzionali sono state approvate a maggioranza e tanto vale come precedente e come prassi. A me invece pare che tale previsione sia utile per tutelare le minoranze (pensiamo alla Rosa nel Pugno) da possibili riforme inciuciste. Peccato, avrei votato Si a questa proposta, ed è l'ultimo spunto positivo perduto di questa sciagurata riforma. Ma non è colpa mia, sono altri ad aver voluto una riforma del genere. NO,NO,NO.

Trieste, 9/6/2006

Fausto Cadelli