Il Piccolo 11-12-2001
Donato Riccesi, presidente del Collegio costruttori:
Porto Vecchio, prima dei vincoli vanno decise le destinazioni d'uso
Si è celebrato puntualmente l'ennesimo convegno, con il «match architetti-giuristi» sulle sorti del Porto Vecchio di Trieste, abbiamo fatto un passo avanti? Dal giugno dell'87, data della presentazione dell'idea Trieste Futura, a oggi, tutto dovrebbe essere stato detto, ma evidentemente non è così; c'è ancora qualcuno che si interroga in merito alle proposte del progetto Boeri, che è servito solo ad affossare quello di Trieste Futura per morire a sua volta pugnalato alla schiena, o sulla variante del piano regolatore portuale, che non ha ancora visto la luce, o addirittura se debbano essere prima precisati i vincoli e poi le norme urbanistiche o viceversa e quindi se debbano essere i vincoli a condizionare le destinazioni d'uso.
Dispute e interrogativi di alto livello, certamente, quanto inversamente proporzionali alla concretezza che dovrebbe presiedere interventi di simile portata economica, e non solo culturale. Noi temiamo infatti che di questo passo non nascerà un bel nulla, se non ulteriori, inutili quanto eminentissime chiacchiere che penso interessino ben poco alla città, che resta sempre in attesa di un rilancio che sembrava a portata di mano e ora forse sembra allontanarsi, nel porto. Appare emblematico come vi siano schieramenti culturali - i no global del restauro - a considerare con preoccupazione una presunta maglia larga nei vincoli apposti dal ministero a seguito dell'intervento dell'on. Sgarbi che aveva peraltro già raddoppiato il numero degli edifici sottoposti a vincolo diretto ex legge 1089/39. Si preoccupano, costoro, che i vincoli suddetti siano «all'acqua di rose», non in grado cioè di preservare l'unitarietà e la qualità del manufatto e dell'ambiente.
Prendiamo il caso del magazzino 26, i cui lavori sono stati recentemente aggiudicati con un ribasso impressionante di oltre il 48%, quale sarà la destinazione d'uso dell'enorme fabbricato è ancora nel grembo di Giove, per intanto l'unica cosa certa riguarda il ripristino delle facciate e della copertura; il rifacimento degli intonaci, ad esempio, dubito potrà essere curato dagli specialisti del settore, con magisteri e materiali tradizionali a base di calce; alle condizioni in cui è stato aggiudicato l'appalto gli specialisti saranno rappresentati dalle squadre di cottimisti extracomunitari che pomperanno sui nobili paramenti murari premiscelati a base cemento.
E d'altra parte sembrano ipotizzabili restauri filologici per un complesso urbanistico-edilizio di tale vastità? Come sarà possibile trasformare un hangar nato per utilizzi emporiali in albergo senza modificare sostanzialmente le tipologie, le strutture, le forature di facciata? Si tratterà dunque di conservare il perimetro esterno e conseguentemente procedere con una trasformazione «pesante», ovvero si dovrà essere più rispettosi del testo? E se il rispetto dell'esistente precisato dal vincolo non consentisse gli adattamenti necessari a una riconversione per uso diverso, e le relative compatibilità economiche, che faremo? Due milioni di metri cubi di musei? Mia opinione è, che salvo circoscritte eccezioni, la riconversione di un tale patrimonio non potrà avere quel rigore disciplinare del dettaglio, quanto piuttosto rivolgersi al complesso, alla conservazione dei blocchi edilizi, con le loro volumetrie, le partiture, il disegno delle facciate... questi argomenti devono essere risolti preliminarmente, subito, a livello normativo, per dare certezza agli operatori e ai loro progetti.
Noi, da costruttori, irrimediabilmente compromessi da una visione prosaicamente pragmatica della materia che affonda le radici, piaccia o non piaccia, nelle regole del mercato, partiremmo anziché dai vincoli, piuttosto dalle destinazioni d'uso possibili, cioè da quelle funzioni che possono essere ragionevolmente ipotizzate (e in buona parte già riscontrate dal recente bando promosso dall'Autorità Portuale) nei vari edifici del comprensorio.
Perché se prima vincoliamo senza prevedere concretamente le nuove funzioni, le opere necessarie per ospitarle, e l'eventuale compatibilità con il vincolo specifico, raggiungeremmo solo il risultato di preservare quelle vestigia nello stato attuale, cioè nel grado di fatiscenza e abbandono che conosciamo. Sembra che tutti siano d'accordo nell'avviare il recupero e il riutilizzo del Porto Vecchio, i metodi divergono tuttavia, c'è chi si preoccupa di segni troppo forti di architetti famosi, susseguitisi numerosi negli anni, auspicando il coinvolgimento solo dei professionisti del restauro. Temo non siano sufficienti. Il nodo resta sempre il progetto, ovvero la sua qualità, la capacità di una visione complessiva, una regia che abbia esperienza nel settore portuale, nelle infrastrutture viarie, nelle interconnessioni funzionali tra destinazioni urbane differenziate: terziarie, commerciali, ricettive, diportistiche, fieristiche, universitarie, residenze speciali, ecc.
E concordiamo anche con il prof. Cristinelli che restaurare «non vuol dire conservare reliquie (...) bisogna progettare perché quegli spazi siano vivibili dalla gente». Desidererei aggiungere qualcosa, visto che di progetti non ne sono mancati negli ultimi lustri. Bisogna anche poter realizzare: far diventare le idee opere concrete. E con i soldi di chi? (sarebbe opportuno interrogarci) Non certo con quelli dello Stato, che non ci sono o comunque largamente insufficienti in un recupero che potrebbe aggirarsi attorno ai 1500 miliardi...E allora non restano che gli investimenti dei privati, dei grandi investitori, delle compagnie che operano sul piano internazionale, ma che per investire hanno bisogno di certezze. Regole certe e non postulati: cosa si può fare e come, e soprattutto con quali tempi. Possiamo dare oggi questo tipo di risposte?
Non sembra. Come non sembra ragionevole immaginare che il rilancio di un'area così importante possa partire dalle disquisizioni in merito ai vincoli più o meno rigidi, che qualcuno riesce a immaginare addirittura in termini di valore aggiunto sull'area: posti e auspicati per prevenire gli scempi del moderno, i soliloqui degli architetti di grido, peccato: mi sarebbe piaciuto immaginare un edificio tutto storto di Frank O.Gery in cima al molo IV, al posto di quel rudere vincolato senza tetto entro il quale si svolgono concertini estivi o natalizi.
Ma forse è meglio che queste cose le lasciamo fare agli altri, possiamo sempre andare ad ammirarle durante le vacanze: a Bilbao come a Parigi, nei docks di Londra come nel Port Veil a Barcellona, nel porto di Amburgo come in quello di Boston, o a Lisbona, a Berlino, ovunque meno che da noi, Paese con la più alta concentrazione di opere d'arte al mondo, che rifiuta il moderno ma che è incapace di mantenere e valorizzare l'enorme patrimonio storico artistico, a cominciare da Pompei, che dovrebbe essere commissariata e affidata in gestione ai giapponesi o ai tedeschi. Continuiamo a farci del male, nell'incertezza ci resta sempre la torta Sacher.
Donato Riccesi presidente del Collegio costruttori