L'imbroglio - IL TRATTATO DI OSIMO CON LA JUGOSLAVIA HA UN RISVOLTO CRIMINOSO: IL PROTOCOLLO ECONOMICO
di Giulio Ercolessi
SOMMARIO: Dopo 20 anni di demagogia nazionalista, la diplomazia segreta democristiana regala alle multinazionali e alla Fiat la zona franca sul Carso. Per Trieste e il suo territorio sarà una catastrofe ecologica, economica, culturale, urbanistica. Ma la sinistra di regime, Pci in testa, è d'accordo: un'altra prova di "lealtà atlantica"? Intanto, per paura del malcontento popolare, si pensa già di rinviare le elezioni comunali a Trieste. Facendo quadrato a difesa dell'accordo, la sinistra ha rischiato, prima dell'intervento radicale, di regalare alla destra monopolio dell'unanime opposizione popolare al folle progetto.
(PROVA RADICALE, dicembre 1976)
Il trattato di Osimo fra Italia e Jugoslavia si compone essenzialmente di due documenti: il trattato vero e proprio relativo alla definizione delle controversie territoriali fra i due paesi, e l'accordo di collaborazione economica cui è allegato, fra l'altro, un protocollo relativo all'istituzione di una zona franca industriale a cavallo del confine sull'altipiano carsico.
Quando, nel settembre dello scorso anno, venne dato l'annuncio che le intese erano state raggiunte, l'aspetto più appariscente sembrò il primo: il regime si sbarazzava delle finzioni giuridiche difese fin'allora (vedi la risposta ad un'interrogazione parlamentare missina del mese prima), e riconosceva anche formalmente che la zona B dell'ex territorio libero di Trieste altro non era che parte integrante del territorio jugoslavo. Era l'abbandono della politica perseguita per trent'anni dalla Dc a Trieste, era l'abbandono dell'ipocrita demagogia su cui per trent'anni la Dc era vissuta sfruttando i voti delle decine di migliaia istriani residenti a Trieste, alimentandone le illusioni revansciste. Tutte le forze politiche democratiche espressero il loro consenso; solo a Trieste, per motivi più sentimentali che politici, vi furono anche in campo democratico dissensi che lacerarono alcuni partiti, soprattutto il Psi e il Pri, che subirono piccole scissioni. Non vi fu però in quella fase nessuna reazione di rigetto di tipo nazionalistico che andasse al di là delle organizzazioni neo-irredentiste e degli esuli: pur a malincuore, anzi, anche molti di costoro si rendevano conto che quella soluzione era inevitabile, che anzi era arrivata tardivamente, e che sarebbe stato folle per difendere quella finzione giuridica rischiare una crisi internazionale che tra l'altro avrebbe strangolato l'economia triestina, per la quale il "confine aperto" è una necessità vitale. Lo stesso elettorato neofascista (che è forte a Trieste solo per la debolezza del "background" culturale cattolico, che determina un elettore orientato a votare Msi anziché Dc più facilmente che altrove) non era stato capace di mobilitarsi, com'era avvenuto dieci anni prima contro l'elezione di un assessore sloveno nella giunta municipale di Trieste. I torti subiti trent'anni prima dagli istriani italiani a causa della guerra fascista e della reazione nazionalistica da questa scatenata non avrebbero certo avuto modo di essere altrimenti riparati.
Le trattative furono condotte, per la prima volta nella storia diplomatica italiana, non dal ministero degli esteri, ma da un funzionario del ministero dell'industria, il dott. Eugenio Carbone, direttore generale di quel ministero. Col passare dei mesi il dibattito politico cittadino si spostò quindi dal problema dei confini a quello economico, cioè alle cosiddette contropartite per lo sviluppo economico di Trieste, rappresentate, a dire della Dc, dall'accordo economico allegato al trattato di Osimo, che ha il suo fulcro nella creazione di una zona franca industriale a cavallo del confine sul territorio carsico, alle spalle di Trieste. Per contestare tali intese nel maggio scorso si costituì un comitato, formato dai fuoriusciti dal Psi e dal Pri, ma anche da altre personalità di rilievo cittadino, anche iscritte al Psi, al Pri e al Pli, che con l'appoggio del quotidiano locale "Il Piccolo" promosse la raccolta delle firme per un progetto di legge di iniziativa popolare per la istituzione di una zona franca integrale comprendente tutto il territorio della provincia di Trieste. Tale progetto ricalcava un analogo disegno di legge sostenuto negli anni passati (e fino al 1972) dal Pci, in particolare da Vittorio Vidali, che si ricollega a una vecchissima aspirazione e tradizione triestina, risalente al periodo austroungarico, ma ancora evocatrice di entusiasmi e capace di mobilitare gran parte della popolazione. Dopo un inizio in sordina e dopo la parentesi estiva, a cominciare da settembre apparve chiaro che il grande successo dell'iniziativa, che esprimeva soprattutto, nelle motivazioni dei firmatari, tre posizioni fondamentali: ambienti nazionalisti firmavano per contestare gli accordi di Osimo nella loro globalità, gran parte della gente esprimeva invece o soprattutto la loro giustificatissima sfiducia nei confronti di una classe politica inconsistente e incapace e le preoccupazioni per il costante declino economico della città. Molti altri poi firmavano per contestare la soluzione che l'accordo economico di Osimo aveva previsto, in particolare con la istituzione della zona industriale carsica, senza in nessun modo interpellare o consultare le popolazioni interessate. Le forze politiche democratiche si chiudevano a riccio nell'ostinata difesa dell'accordo di Osimo e della Dc e la protesta popolare, sempre più plebiscitaria, rischiava oggettivamente, al di là delle intenzioni dei promotori, di essere risucchiata a destra, specie dopo l'impegno profuso, verso la fine di ottobre, dalle organizzazioni degli esuli. Di fronte a una città sempre più chiaramente in rivolta contro la sua classe politica, la sinistra rischiava di ripetere tragici errori, consegnando alla destra il monopolio dell'opposizione non solo al trattato sui confini, ma anche all'industrializzazione del Carso. Ma l'accordo di Osimo meritava questa difesa ad oltranza? Abbiamo cominciato allora ad approfondire la questione, e ci siamo convinti che la zona industriale, lungi dal costituire il bizzarro parto di un presuntuoso e ignorante alto burocrate democristiano, costituiva invece il perno dell'intero trattato, il quale non era per parte italiana altro che la copertura e il pretesto per imporre l'approvazione di un progetto che diventava sempre più chiaro e si appalesava sempre più catastrofico per Trieste e per la sua popolazione.
Presentata come "contropartita" alla cosiddetta cessione della zona B, la zona industriale carsica a cavallo del confine dovrà innanzitutto sorgere su un territorio molto ampio, più vasto della stessa città di Trieste, alle spalle di questa, esattamente nella direzione da cui soffia il vento predominante, la bora. L'inquinamento atmosferico sarà dunque inevitabile e massiccio: la bora anziché portare aria pulita, come finora è sempre accaduto, diverrà il veicolo principale della diffusione della malattie da inquinamento atmosferico. Basterebbe questa constatazione per esigere una diversa ubicazione della zona industriale: una ratifica di questa parte dell'accordo sarebbe un crimine in una città che già detiene il primato nazionale dei decessi per tumori polmonari.
Il terreno su cui la zona dovrà sorgere, oltre ad essere inadatto da un punto di vista orografico, è permeabilissimo: sarà quindi inevitabile un massiccio inquinamento idrico, a meno di non volere adottare impianti di disinquinamento e fognari che da soli impegnerebbero più dei 300 miliardi stanziati.
Per la realizzazione delle infrastrutture previste della legge di ratifica (e che comunque creerebbero altri problemi di difficile soluzione) le acque di scarico delle industrie della zona andranno inevitabilmente a inquinare le sottostante falda carsica, che sfocia nel golfo di Trieste attraverso il fiume Timavo, da cui Trieste trae attualmente il suo fabbisogno idrico. Non solo, la stessa falda isontina (un nuovo acquedotto reperirà dall'Isonzo l'acqua necessaria per l'approvvigionamento di Trieste) sarà irreparabilmente compromessa. E' da rilevare che già oggi la presenza di due sole industrie che scaricano i loro residui nel Timavo, in territorio jugoslavo, rende spesso inutilizzabili le sue acque, e Trieste è rimasta più volte all'asciutto. Lo stesso golfo di Trieste, dotato di bassi fondali e sfavoritissimo dalle correnti, non potrà non essere irrimediabilmente compromesso.
Gli accordi di Osimo non offrono, per la prevenzione degli inquinamenti, altro che dichiarazioni di intenzioni, ma nessuna prescrizione normativa precisa e vincolante; ci si rimette quindi alla buona volontà di chi gestirà questo accordo. Nessuna garanzia è data nemmeno per il tipo di insediamenti industriali che saranno consentiti nella zona, né alcun limite è posto alla sua estensione, limitandosi il protocollo a stabilire che le aree dovranno essere scelte da una commissione paritetica all'interno di un perimetro enorme, che comprende al suo interno gli abitanti di Gropada, Padriciano e Trebiciano e i sobborghi di Opicina, Basovizza e Sesana, oltre a una delle riserve naturali erette nel 1971 dalla legge Relci (dal nome del deputato moroteo che la presentò e che è oggi fra i paladini dell'accordo) sulla tutela dell'ambiente sociale e naturale del Carso. Il territorio interessato oltre a costituire tradizionalmente il polmone verde di Trieste (il Carso è noto per la quantità di specie vegetali e per l'abbondanza dei caprioli) e la meta del tempo libero dei triestini, è abitato pressoché totalmente dalla comunità nazionale slovena residente in Italia. La creazione della zona industriale non potrà che portare a compimento, con la costruzione delle industrie, delle infrastrutture abitative e viarie, con la congestione urbana e l'immigrazione di massa che si renderanno necessarie, l'opera di distruzione della minoranza nazionale slovena che vent'anni di fascismo e trent'anni di regime democristiano non erano riusciti a perfezionare: va rilevato infatti che, a differenza di quanto accaduto nel vicino comune carsico Duino Aurisina, dove sono stati insediati dopo la guerra mondiale numerosi nuclei di abitati riservati ai profughi istriani, nel territorio interessato la minoranza slovena, forte di una fitta struttura associativa di autodifesa etnica e culturale, è ancora di gran lunga il gruppo prevalente.
Sul piano sociale l'istituzione della zona industriale carsica provocherà lo sfacelo di una comunità urbana e rurale il cui livello di vita si mantiene ancora su livelli umanamente accettabili. Per la prima volta nella storia del nostro paese, la sinistra istituzionale si appresta a dare il proprio avallo al modello di sviluppo non controllato, scriteriato e distorto che per un secolo ha combattuto e contestato nel resto del paese. Si creeranno infatti nella zona non meno di settantamila posti di lavoro, per coprire i quali necessariamente saranno richiamati lavoratori dalle zone depresse della Jugoslavia meridionale, i quali con le loro famiglie verranno a creare una nuova città di non meno di 200.000 abitanti: una disoccupazione di massa così ampia da giustificare insediamenti industriali di tali dimensioni non esiste infatti nel territorio interessato né da parte italiana, né da parte jugoslava: si ricreeranno inevitabilmente quei fenomeni di congestionamento urbano, disadattamento sociale di massa, infelicità collettiva, che segnano il volto delle periferie dei centri industriali delle aree ipertrofiche del triangolo industriale: il carcere minorile voluto a Padriciano dal procuratore generale di Trieste Antonio Pontrelli (quello accusato dagli avvocati difensori degli imputati della strage di Peteano), la cui realizzazione è sempre stata contestata dalle forze democratiche, troverà il modo di riempirsi e di fornire finalmente un adeguato indice di criminalità anche alla cronaca triestina. Del resto un'immigrazione così massiccia di lavoratori jugoslavi finirà inevitabilmente per rinfocolare odi nazionali che si vanno invece sempre più definitivamente spegnendo..
Perché tutto questo? Gran parte degli errori contenuti nell'accordo è sicuramente dovuta all'incompetenza e all'incapacità di chi ha gestito la trattativa. Ad esempio per quanto riguarda l'ubicazione, il dottor Carbone, relatore a un convegno organizzato dalla Dc a Trieste in ottobre, ha risposto pressoché testualmente: "Sa, io non sono di Trieste, ma ho visitato la zona in elicottero (sic!) poi ci ho mandato i geometri, i quali mi hanno detto che, sì, ci sono effettivamente questi, com'è che li chiamate? questi buchi (si riferiva alle doline, alle foibe, agli altri fenomeni del carsismo, ndr), ma che la cosa era fattibile". A parte la scelta folle e criminale dell'ubicazione della zona industriale (e ci devono spiegare come sia possibile in periodo di austerità chiamare i contribuenti a fare sacrifici per costruire nuove industrie e per costruirle per di più in una zona dove costeranno quattro o cinque volte più che altrove, con grave danno per la salute di una città e nessun vantaggio per l'occupazione) resta da analizzare quale sia la molla economica, quali gli interessi che hanno spinto ad elaborare questo progetto. Va detto subito che, per esplicita affermazione dei nostri negoziatori, la zona franca industriale l'hanno voluta loro, e non gli jugoslavi, e certamente solo un democristiano italiano poteva partorire una imbecillità tale. Per quali interessi ha dunque agito il dottor Carbone, oltreché per venire incontro alle esigenze della Dc locale che ha cercato di presentare l'accordo sulla zona come una contropartita per Trieste, di fronte alle temute reazioni (che invece sono state assai deboli) contro la cosiddetta cessione dell'ex zona B? La risposta la fornisce l'art. 5 del protocollo sulla zona franca, che dice: "I rapporti di lavoro, relativi agli stabilimenti situati nella zona sono sottoposti alla legislazione dello Stato in cui ha sede l'impresa da cui dipendono detti stabilimenti". Poiché secondo il diritto jugoslavo, imprese straniere non possono insediarsi in Jugoslavia, ma solo essere presenti attraverso compartecipazioni minoritarie, ecco aprirsi per i grandi gruppi multinazionali la possibilità di usufruire sotto la bandiera ombra jugoslava della manodopera sottocosto, rappresentata dai lavoratori macedoni, montenegrini e bosniaci che immigreranno nella zona. Solo per questi grandi gruppi, grazie al peso contrattuale da essi detenuto presso il governo di Belgrado a causa di altre compartecipazioni in imprese jugoslave, sarà possibile superare sul piano dei rapporti di forza le difficoltà frapposte dalla legislazione jugoslava all'impiego di capitali stranieri. Questi gruppi (per parte italiana pare abbia già avanzato la richiesta la Fiat holding, e non a caso Gianni e Umberto Agnelli sono più volte pubblicamente intervenuti a Trieste in difesa dell'accordo) potranno quindi produrre merci da importare nei paesi del Mec godendo di condizioni inimmaginabili in Italia: pagando la manodopera a un prezzo pari a circa la metà di quello italiano, e senza applicare i ben più gravosi contratti italiani e la legislazione italiana (tra l'altro lo statuto dei lavoratori). Per altre imprese italiane non vi sarà alcun incentivo a installarsi nella zona franca. Più di 180 imprese di nazionalità jugoslava e nessuna di nazionalità italiana hanno infatti presentato richiesta di installarsi nella zona.
I riflessi sull'economia triestina, in mancanza di credibili prospettive occupazionali nella zona, saranno tutti negativi: le grandi imprese avranno tutto l'interesse a spostare le loro attività nella zona sotto la bandiera ombra jugoslava, sottraendo posti di lavoro agli operai triestini. Non a caso si sono verificate in questi ultimi mesi numerose chiusure di stabilimenti industriali e non è stata smentita la notizia, pubblicata da un diffuso settimanale, secondo cui la Fiat starebbe per ritirare la propria partecipazione del 50% nella "Grandi Motori Trieste". Lo stesso interesse avranno le grandi imprese che operano nel vicino Friuli e va rilevato che quantomeno i piani di sviluppo industriale della regione non dovrebbero ignorare dopo il 6 maggio i problemi della ripresa economica del Friuli, senza la quale non è pensabile nessuna rianimazione della vita civile nelle zone terremotate. Le industrie insediate nella zona non promuoveranno nessuna attività industriale indotta che venga incontro alle esigenze occupazionali di parte italiana, perché anche per queste imprese sarà conveniente operare con manodopera jugoslava in zona franca. L'industria triestina non potrà che soccombere di fronte alla concorrenza delle imprese jugoslave operanti in zona franca, il massiccio afflusso di nuova popolazione aumenterà il già alto costo della vita a Trieste; e, al di là di tutte le dichiarazioni di intenzioni contenute nell'accordo e nel protocollo, i trasporti via mare e via terra non passeranno certo attraverso i porti e i vettori triestini ben più costosi di quelli jugoslavi, così come resterà sulla carta l'affermazione secondo cui i cittadini dei due paesi avranno pari diritto all'impiego negli stabilimenti della zona.
Per di più le scelte operate attraverso l'accordo di Osimo sconvolgono ogni precedente previsione economica e urbanistica elaborata degli enti locali. Le popolazioni e i loro organi elettivi non sono stati minimamente consultati di fronte a scelte che segneranno così profondamente la loro vita futura. Solo il presidente regionale, il moroteo Comelli (altra delle due sciagure che, con il terremoto, hanno colpito quest'anno le popolazioni friulane) venne convocato nel cuore della notte per esprimere parere favorevole (obbligatorio a norma dello statuto regionale, che prevede la partecipazione del presidente della regione alle riunioni del Consiglio dei ministri che discutono materie d'interesse regionale) ad un progetto che nemmeno conosceva, se non nelle linee essenziali. Il voto favorevole dei consigli degli enti locali fu solo successivo, e verté ovviamente più sul problema della definizione delle controversie confinarie che su un accordo economico che era difficile allora valutare in tutte le sue conseguenze, e fu estorto con inaudite pressioni dei vertici nazionali di alcuni partiti: di fronte a un voto di un'assemblea cittadina del Pri, che invitava i propri rappresentanti ad astenersi, La Malfa annuncio telegraficamente le proprie dimissioni da vicepresidente del consiglio se tale mandato fosse stato rispettato, provocando le dimissioni di uno dei due consiglieri comunali repubblicani.
Ma se non vi è stato alcun coinvolgimento degli enti locali né delle forze sociali nella fase di stipulazione dell'accordo, non diverse sono le prospettive per la futura gestione degli accordi; ogni decisione in merito, infatti, è demandata a una commissione paritetica italo-jugoslava, costituita per parte italiana da tre rappresentanti dell'Ente Zona Industriale di Trieste (Ezit), presieduto, come tutto il sottogoverno locale, da un altro moroteo, Ennio Antonini. Attraverso la creazione di questo comitato, le competenze legislative e amministrative degli enti locali e della stessa regione a statuto speciale, già limitate con la definizione di scelte irreparabili attraverso la stesura degli accordi, verranno definitivamente amputate: sarà il comitato a decidere, senza alcun controllo elettivo, l'estensione della zona, i controlli (solo eventuali) sull'inquinamento, il tipo di insediamenti da permettere o da vietare, ed ogni altro compito previsto dal protocollo sulla zona franca e dalle sue disposizioni aggiuntive, tuttora ignote. Questo comitato dovrà, secondo l'art. 7 del protocollo, "amministrare la zona". Esso dovrà inoltre elaborare il piano urbanistico della zona, per proporlo alle "competenti autorità" dei due paesi. Nel miglior caso, quindi, agli enti locali non resterà che esprimere un sì o un no alle scelte proposte dal comitato, ma la situazione potrebbe anche essere peggiore. La Corte Costituzionale ha infatti fin qui ritenuto che il limite degli "obblighi internazionali" alle competenze legislative e amministrative delle regioni e degli enti locali vada interpretato in senso estensivo e antiautonomistico, come comprensivo della stessa esecuzione degli accordi: in caso di futuri contrasti fra Stato e enti locali, il governo troverà quindi miriadi di giuristi di regime disposti a sostenere la tesi che le "competenti autorità" sono, per parte italiana, quelle statali e non quelle locali.
Catastrofe ecologica, strage ambientale, deportazioni forzose di migliaia di lavoratori per essere ipersfruttati dai grandi gruppi multinazionali, congestionamento urbano, prevedibile incremento massiccio dei fenomeni di disadattamento sociale, rinfocolamento prevedibile di odi nazionali ormai quasi sopiti, aggravamento della crisi dell'economia triestina e ostacoli alla ripresa produttiva nel Friuli, amputazione permanente delle competenze degli enti locali attraverso lo strumento centralistico del trattato internazionale. Eppure, la sinistra triestina tradizionale ha fatto quadrato a difesa di questo accordo, ha rischiato, prima dell'intervento radicale, di regalare alla destra il monopolio dell'unanime opposizione popolare a questo folle e criminale progetto di regime. Il ricatto democristiano ha quindi ancora una volta funzionato: l'avere legato trattato e accordo in un unico documento sembra porre le forze democratiche di fronte all'alternativa: o ratifica integrale dell'accordo sulla zona industriale o crisi internazionale per la mancata definizione del problema dei confini. Da parte jugoslava, le preoccupazioni per la definitiva chiusura di un focolaio di tensione in previsione del "dopo Tito" sono più che giustificate, dopo il comportamento inqualificabile che per quasi vent'anni ha mantenuto la diplomazia italiana, che ha sempre promesso un accordo sui confini nei colloqui internazionali, mentre la Dc ha sempre alimentato impossibili illusioni revansciste e speculato in tal modo sui sentimenti dei profughi istriani a ogni tornata elettorale. Altrettanto giustificate sono quindi le preoccupazioni dei democratici italiani perché questo problema sia al più presto rimosso, ma non è in nessun modo accettabile che il prezzo dell'accordo sui confini sia la catastrofe che si vuole imporre a Trieste con la nuova e peggiore Gioia Tauro.
Non si tratta di essere a favore o contro l'industrializzazione in generale: si deve dire se alla sinistra va bene qualunque industria, dovunque e comunque. Vi sarebbero per l'ubicazione della zona industriale a cavallo del confine, almeno due alternative possibili: la zona del Vipacco, in provincia di Gorizia, o ancora meglio, quella che rappresenta la direttrice naturale dello sviluppo economico di Trieste: la valle delle Noghere, a sud della città, in continuazione dell'attuale zona industriale di Trieste. Anche in questa zona vi sono alcuni problemi tecnici, ma nemmeno paragonabili a quelli che dovrebbero essere affrontati sul Carso. La soluzione giuridica per salvare il trattato (pur non esente da gravi difetti per quel che riguarda, ad esempio, la perdita sicuramente incostituzionale della cittadinanza per i cittadini dei due gruppi etnici minoritari che non optino entro i tre mesi per il trasferimento nella madrepatria) e rinegoziare il trattato per la parte relativa alla zona industriale non dovrebbe essere difficile da trovare, essendo tutta da provare l'inscindibilità di trattato e accordo. Una soluzione del genere non dovrebbe trovare insormontabili ostacoli da parte jugoslava se è vero com'è vero che la zona industriale è stata voluta dagli italiani: anche se è certo che questa rinegoziazione non potrebbe che sottolineare e riconoscere la nullità e il pressappochismo dei negoziati democristiani. Finora la Dc aveva buon gioco a sostenere che l'opposizione alla ratifica della zona franca industriale non era che un pretesto per bloccare l'accordo sui confini: altrettanto poteva anche essere detto a proposito della raccolta delle firme sulla proposta di legge di iniziativa popolare per la zona franca integrale, dopo il tentativo di strumentalizzazione messo in atto dalle organizzazioni nazionaliste. L'iniziativa radicale ha cambiato il segno di questa opposizione, ha quanto meno offerto la possibilità di dare uno sbocco democratico alla doverosa e plebiscitaria opposizione popolare alla zona industriale carsica. Aderendo alla raccolta delle firme abbiamo chiaramente affermato che volevamo con ciò significare non l'adesione ad un progetto economico alternativo, che non sarà approvato certamente da alcuna maggioranza parlamentare, ma proprio la nostra opposizione alla creazione della zona industriale, e, dopo il nostro intervento, il traguardo delle 50.000 firme è stato superato, e il flusso dei cittadini che si recano a firmare, già elevatissimo, è ulteriormente aumentato.
Le forze politiche hanno dovuto misurarsi con questa iniziativa radicale, un gruppo di prestigiosi esponenti della cultura e della sinistra italiana ha aderito ad un appello al Parlamento lanciato dal PR per una diversa ubicazione e regolamentazione della zona industriale. Giorgio Benvenuto ha autonomamente espresso una posizione analoga alla nostra, ed è stato colpito dalla stessa censura (il gazzettino radiofonico regionale, diretto dal moroteo Botteri, non ne ha dato notizia: si tratta del direttore della Rai locale che in una circolare inviata ai giornalisti ha scritto che la giunta Comelli non può essere contestata dalle popolazioni terremotate perché "in un paese democratico" tale compito spetta alle forze politiche rappresentate negli enti locali e quindi le proteste popolari vanno censurate). Il Pdup e Lotta Continua hanno fatto proprie in larga misura le nostre critiche anche se si asterranno dal dare battaglia contro la ratifica, sottostando anch'essi al ricatto democristiano; il Pli e poi il Psdi locali hanno chiesto anch'essi la rinegoziazione dell'accordo.
Ma le forze politiche maggioritarie hanno riunito nuovamente il consiglio comunale e quello provinciale, per riaffermare in una mozione il proprio favore alla ratifica: sulle linee della mozione è probabile che anche al Parlamento sarà proposto un ordine del giorno che affermerà "l'esigenza che enti locali e forze sociali siano resi pienamente partecipi della migliore attuazione degli accordi" e che "la comunità locale sia parte attiva e non oggetto passivo di scelte maturate altrove" (sic), e l'impegno alla "doverosa salvaguardia dell'equilibrio ecologico e dell'ambiente naturale del Carso, nonché dell'assetto etnico e sociale delle zone interessate": vane parole, "erba trastulla", come avrebbe detto Ernesto Rossi, di fronte alla approvazione con legge di un provvedimento ispirato a criteri diametralmente opposti, e dotato di valore normativo. Ma la chiave di volta della mozione approvata al consiglio comunale, da tutti i gruppi dell'"arco costituzionale" con la sola eccezione del Pli, è costituita da un'affermazione che riprende una frase di un manifesto diffuso nei giorni precedenti dalla federazione del Pci: sulla base degli accordi di Osimo dovranno "stabilirsi tra le forze democratiche della città nuove e positive intese, tali da assicurare all'iniziativa delle amministrazioni elettive l'autorevolezza che può derivare solo da una più ampia base dei consensi". Non è una frase equivoca: è l'accordo politico sulla zona industriale del Carso che apre la via la compromesso storico a livello locale. L'approvazione di una catastrofe di regime è stata il suo primo atto; il secondo, pare, sarà il rinvio delle elezioni comunali, previste per l'anno prossimo, e che non potrebbero che essere catastrofiche per le forze politiche, quanto la zona industriale lo sarà per la città. E' questo il nuovo modo di governare che i compagni del Pci ci preannunciano da mesi?
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