Il Piccolo 02-07-2002
Il rapporto annuale della Fondazione conferma dati allarmanti sullo stato di salute dell'ex «locomotiva» d'Italia, ormai pronta a delocalizzarsi
Mario Carraro: «E' un modello con vocazione a dissolversi». Crollati nell'area i tassi di natalità
VENEZIA - Una regione di frontiera. Affacciata all'Est europeo. Capace di performances economiche sorprendenti, ricercate e ottenute inseguendo i mercati là dove sono più vitali. Modello di sviluppo studiato ogni dove. Ma il Nordest sta scoprendo di avere una frontiera al suo interno e tanto più vale per il Friuli Venezia Giulia, in cui molti dei fattori critici sono tesi allo spasimo. Il Nordest sta scoprendo la dimensione del limite. Che il limite esista lo evidenziano i trend di crescita economica dell'ultimo biennio, che segnano un allineamento ai valori nazionali e europei. «I fattori principali su cui il modello di sviluppo si è fondato stanno progressivamente perdendo le loro potenzialità» rimarca Daniele Marini nell'introduzione al "Rapporto 2002" prodotto dalla Fondazione Nord Est.
Se il «Rapporto» dell'istituto di ricerca voluto dalle Camere di commercio e da Confindustria nordestine assume la funzione di un barometro, indica fase di massima incertezza. Tale indicazione formula concordemente la ventina di saggi - affidati a economisti e sociologi, demografi e politologi dei più avvertiti in questioni nordestine - in cui il «Rapporto 2002» è articolato. Il fattore lavoro. Una delle ragioni del boom a Nordest è consistita nella disponibilità di un'ampia base di manodopera. E si trattava di manodopera flessibile. Come è ormai acclarato, dato che le imprese sono sempre più alla ricerca affannosa di lavoratori, sta arrivando al limite il processo di sviluppo interno all'area e la capacità dell'area stessa di fornire un fattore primario qual è la manodopera.
Nordest senza nordestini. Il tema demografico s'incrocia, evidentemente, con quello del mercato del lavoro. Il crollo dei tassi di natalità che hanno investito il Nordest a partire dagli anni '70 sta emergendo nei suoi effetti (potenzialmente devastanti). Secondo le stime della Fondazione diretta da Ilvo Diamanti, nel 2021 la popolazione locale del Nordest diminuirà di circa 800mila unità, tornando sostanzialmente all'entità rilevata nel 1961. «La quantità di manodopera locale sarà dunque progressivamente calante, con significativi problemi per le imprese locali - sostiene Marini - D'altro canto, una società più anziana, e con meno giovani in possibilità di assisterli, riverserà al di fuori delle famiglie le proprie domande di assistenza».
Il territorio consumato. La nebulosa urbana che impegna la pianura dal Garda alle Alpi Giulie, con addensamenti oltre la soglia critica soprattutto nella fascia pedemontana, non è più in grado di accogliere la replicazione del modello di sviluppo seguito sinora. Un modello estensivo e invasivo. La possibilità di insediare nuove imprese appare un limite superato. Non è «solo» una questione che attiene al territorio disponibile (e relativi aspetti paesaggistici). Non regge più il sistema delle relazioni interno alla nebulosa, come quotidianamente evidenzia la congestione della rete trasportistica e logistica. Le nuove infrastrutture, se mai saranno realizzate, non potranno consentire ulteriori margini di sviluppo ma rendere più efficiente il network dell'apparato produttivo attuale e fronteggiare i flussi di interscambio generati con il vicino Est europeo.
La frontiera del futuro. La delocalizzazione produttiva - fenomeno in cui il Nordest ha assunto la parte del pioniere - indica una risposta a un insieme di fattori critici. Risponde alla scarsità di manodopera, di flessibilità e di territorio, in primis. Fa emergere la tensione, tipica dell'imprenditore nordestino, a ricercare sempre nuove dimensioni di crescita: in questo caso si tratta di produrre a costi più bassi, ma anche di andare incontro a ulteriori mercati di sbocco. La delocalizzazione, però, non sana affatto le criticità che l'imprenditore ha lasciato «a casa». Il mercato del lavoro, inteso sia nella componente delle imprese sia nella dimensione dell'assistenza familiare, pretenderà sempre più un Nordest multietnico. Una prospettiva a breve, dato il vero e proprio vuoto generazionale cui la società nordestina sta piombando. Da società di emigranti, a società che richiede immigrati. Secondo le stime della Fondazione, dall'attuale 4% che già è un record nazionale, la quota degli immigrati presenti nel territorio nordestino salirà al 12-15% nel 2020. Come reagirà la società locale a questo autentico mutamento di pelle? Come si adegueranno le strutture familiari, e la loro organizzazione, di fronte all'invecchiamento della popolazione? Indizi del complesso e profondo mutamento in atto sono leggibili in filigrana anche negli indicatori prettamente economici.
Uno sguardo all'andamento del periodo 1990-2001 fa emergere che la crescita delle tre regioni è imputabile assai più al settore dei servizi (+2,8% in media l'anno), che non al comparto industriale (+1,9%). Un altro indizio interessante - riguardo alla consapevolezza dell'imprenditore di dover fare a meno del fattore «manodopera flessibile» - consiste nella mole di investimenti dedicati all'inserimento in azienda di nuove tecnologie e impianti di robotica (+41,8% rispetto al Nordovest). I dati dell'export segnalano, infine, che l'imprenditore sta frequentando nuove frontiere e assegna meno enfasi a territori precedentemente fondamentali. Il Nordest mantiene la propria formidabile quota di esportazioni (20% sul totale nazionale). Ma sta diversificando i mercati di sbocco, diminuendo il peso specifico dei rapporti con l'area Unione europea (-7% fra 1993 e 2001), accrescendo le relazioni con l'Est europeo (+5% nello stesso periodo). Non sarà da trascurare, inoltre, la qualità e la rilevanza degli investimenti che figure leader dell'imprenditoria nordestina vanno conducendo in Cina. Sarà qui la nuova frontiera. Ma passando di frontiera in frontiera il Nordest resterà comunque alle prese con i propri limiti «interni». Marini chiede: «La società e l'economia potranno continuare a fare prevalentemente da sole, senza una politica che ne governi i processi?».
Il dibattito. Le questioni sollevate dal Rapporto 2002 ieri a Venezia sono state il generatore di una tavola rotonda ad hoc, coordinata dal direttore della Fondazione, Ilvo Diamanti. Mario Carraro, presidente del gruppo omonimo, ha osservato che «il Nordest rappresenta oggi più un problema che un mito» e anzi «un modello con vocazione a dissolversi». Pietro Nonis, vescovo di Vicenza e già pro-rettore dell'università di Padova, coglie «analogie impressionanti» fra alcuni fenomeni che interessano la Chiesa e il Nordest, laddove in ambo i casi esiste una situazione «non solo di crisi, ma di indebolimento e estenuazione della classe dirigente». E Tiziano Treu, senatore già ministro al Lavoro, ha sottolineato che «il richiamo al federalismo è rimasto come un tic, ma non si capisce cosa stiano facendo in effetti le Regioni». Alla dimensione politica Diamanti ha dedicato una chiusura tranchante: «Il Nordest ha smesso di pensare di poter cambiare lo Stato, sta iniziando a cogliere la necessità di pensare a cambiare se stesso».
Paolo Possamai