Il Corriere della Sera 06-10-2001
FRONTIERE
Alla vigilia della visita di Stato, lo storico Guido Rumici racconta il dramma della minoranza che scelse di non partire
Fratelli d'Istria, il torto di essere rimasti
Mercoledì Ciampi proporrà un «modello Alto Adige» per la comunità italiana in Croazia
Per molti anni il loro torto è stato quello di esser rimasti. Una scelta che, a sentire quanti erano invece fuggiti di là del golfo, meritava quasi un'accusa di «infedeltà» verso la nazione madre. Non hanno condiviso la diaspora e l'hanno pagata cara, gli italiani d'Istria. Mimetizzati a forza nel melting pot slavo, fino alla caduta del comunismo sono stati dei fantasmi: ignorati da Roma, come fossero etnicamente «impuri»; visti con sospetto da Belgrado, come fossero potenziali irredentisti. Se provavano ad alzare la testa, erano subito avviliti da una concreta ostilità, mentre persino la lingua veneta imparata in famiglia veniva progressivamente sradicata. Ad accettare la nuova realtà erano in pochi.
La gran parte la subiva, vivendo sulla propria pelle una retrocessione culturale e sentimentale, e scoprendosi «esiliata in casa propria»: perché, nonostante tutto, non aveva mai perso la memoria. Hanno cominciato a riprendere coraggio dal 1991, gli «italiani» che si sono fermati dall'altra parte dell'Adriatico e che sono oggi dispersi in una comunità di 3.000 persone nella Slovenia e di 32.000 nella Croazia (ma pare ce ne siano altri 15.000 di nascosti e pronti a «dichiararsi» nel prossimo censimento).
I risultati dei loro tentativi per riemergere sono stati finora piuttosto modesti, e tuttavia presto potrebbero ricevere una forte spinta. Accordi e memorandum di tutela, infatti, torneranno all'ordine del giorno la prossima settimana, con una visita del presidente della Repubblica tra Zagabria, Pola, Fiume e Rovigno sulla quale si appuntano molte speranze. Ciampi non intende ricontrattare dossier o riaprire vertenze: sono materie che spettano ai governi. Si farà testimone di solidarietà, limitandosi a suggerire al collega Mesic, che vuole accompagnarlo attraverso l'Istria, un modello per il futuro: quello della convivenza realizzata in Alto Adige. Un modello europeo, per la Croazia che mira all'Ue.
Un modello che riconosca piena dignità e diritti alla nostra minoranza, come noi l'abbiamo garantita ai «tedeschi» di Bolzano.
Le suggestioni che il viaggio può evocare sono infinite, e si rispecchiano in intere biblioteche: dai fasti dell'impero austro-ungarico alle gesta dei legionari di D'Annunzio, dalle manganellate dei fascisti alla tragedia delle foibe, all'esodo dei 350 mila in fuga davanti ai soldati di Tito. Solo una vicenda non è stata raccontata, a parte per poche prove letterarie: quella, appunto, di chi è rimasto. A colmare il vuoto provvede ora Guido Rumici, un ricercatore goriziano, con il saggio «Fratelli d'Istria» (edito da Mursia) che Ciampi dovrebbe mettere in valigia, prima di partire, perché risponde a tante domande.
Ad esempio: che cosa accadde alla nostra comunità del confine orientale, dopo il 1945? Perché restarono lì? Erano davvero italiani «culturalmente indigenti e spesso comunisti», come ha sostenuto il più prestigioso tra gli esiliati, Enzo Bettiza? Insomma, persone pronte ad accettare l'«assimilazione» slava? «C'erano, sì, dei comunisti, tra loro - spiega Rumici - ma quella leadership era minoranza in una comunità politicamente "grigia", che non faceva opzioni ideologiche: semplicemente, non voleva abbandonare la propria terra. Basta scorrere i dati della diaspora: il 90-95 per cento di chi è fuggito in Italia proveniva dai paesi della costa, era dunque gente "mobile", in grado di adattarsi ovunque e cavarsela, magari tornando da pescatori in questi stessi mari. Chi si è fermato stava all'interno, ed era quasi sempre d'estrazione contadina: piccoli agricoltori, legati al podere coltivato dai padri e dai nonni».
Nel turn over geopolitico pianificato da Belgrado, che incoraggiava l'insediamento in Istria e Dalmazia di persone provenienti dai luoghi più lontani della federazione, la comunità rischiò di essere travolta. Qualcuno parlò, inascoltato, di una «pulizia etnica strisciante e silenziosa», che emarginava l'identità italiana e mortificava l'antico cosmopolitismo di questi luoghi. «Per mezzo secolo è stato difficile tutto - aggiunge lo storico, che ha messo in appendice al suo libro diverse testimonianze cariche di rabbia e risentimento -. Difficile iscrivere i figli alle poche nostre scuole superstiti, difficile la vita dei giornali scritti nella nostra lingua, difficile trovare lavoro se non si accettava la slavizzazione. E difficile far arrivare la propria voce a Roma».
Ora, per quanto indeboliti in italianità dalla lunga pressione politica e filtrati dai tanti matrimoni misti, in trentamila si sono comunque salvati da un destino «meticcio» che li avrebbe fatalmente cancellati. E adesso puntano all'emancipazione su diversi fronti. Realizzando gemellaggi di licei e università (in primo luogo quella «popolare» di Trieste), sollecitando collegamenti con le istituzioni dell'«altro mare», chiedendo un flusso regolare di aiuti per circoli e sodalizi impegnati nello studio della lingua che (giusto com'è accaduto in Albania) la nostra televisione ha rilanciato. Dice Rumici: «Hanno avuto un dopoguerra duro e doloroso, che non può ancora dirsi concluso. Fino a ieri il loro semplice parlare "talian" era giudicato quasi un fatto sovversivo, come di chi ostenta una memoria indebita, in vista di chissà quali revanscismi. Mentre loro si dichiarano semplicemente "istriani", come sono sempre stati. E confidano nell'Italia, che fino a ieri li ha dati per persi».
Marzio Breda